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Doppio processo alla Shell: dall'Aia al teatro con un'opera lirica

Paolo Valentino

Alla Dutch National Opera di Amsterdam va in scena la condanna al colosso petrolifero. Una curiosa ouverture per le vere udienze svoltesi ai primi d'aprile, a seguito del ricorso dell'azienda. La sentenza definitiva sul caso è attesa non prima di giugno

La conversazione nazionale d’inizio primavera in Olanda ha avuto come focus principale due eventi giudiziari. In realtà sono la stessa cosa, hanno perfino lo stesso nome: il processo alla Shell. La differenza è che uno è un’opera musicale e ha fatto una settimana di tutto esaurito a fine marzo alla Dutch National Opera di Amsterdam, mentre l’altro è un procedimento vero e ha luogo in questi giorni in un’aula della Corte distrettuale dell’Aia. Nell’uno e nell’altro caso, la domanda esistenziale è chi porta la responsabilità dei cambiamenti climatici e dunque può e dev’essere chiamato a compiere lo sforzo maggiore per affrontarli, riducendo progressivamente, fino ad azzerarle, le emissioni di CO2 nell’atmosfera. Un rovello etico e politico al quale nessuno – multinazionali petrolifere, governi, singoli individui – può ormai sfuggire e non solo in Olanda.

Facciamo un passo indietro. Nel maggio 2021, un tribunale dei Paesi Bassi accolse gli argomenti della class action intentata contro Shell dalla ong ambientalista Milieudefensie/Friends of the Earth e da 10 mila cittadini olandesi, stabilendo che il gigante energetico è legalmente responsabile per il riscaldamento del clima e deve cambiare la sua strategia aziendale. I giudici condannarono Shell a ridurre entro il 2030 le sue emissioni di CO2 nell’atmosfera del 45 per cento in rapporto al 2019. Altrimenti non sarebbe possibile centrare gli obiettivi di neutralità carbonica fissati dagli accordi sul clima di Parigi. Fu una decisione storica e clamorosa. Per la prima volta, un potere giudiziario ambiva a costringere un grande gruppo petrolifero a stravolgere la sua politica imprenditoriale in nome della salvaguardia del pianeta. Gli ambientalisti di tutto il mondo esultarono. Nessuno, tantomeno Shell, aveva messo in conto una sentenza così contundente. L’impatto politico ed emotivo del procedimento fu enorme. Se ne occuparono la politica, i media, la comunità degli affari. E se ne occupò anche il mondo della cultura, quella che si vuole impegnata e quella di massa. Una pièce teatrale, “De zaak Shell”, in inglese “The Shell Case”, scritta da Rebekka de Wit e Anoek Nuyens, esordì pochi mesi dopo, dapprima riempiendo le sale di prosa e poi battendo i record di share televisivi.  Sono state la compositrice Ellen Reid e l’autrice e regista Roxie Perkins, entrambe americane, a scrivere musica e libretto di “The Shell Trial”, l’opera rappresentata nelle scorse settimane ad Amsterdam. “Un cris de coeur brechtiano sul cambiamento climatico e la complicità, uno show ambizioso e appassionato, che sembra che sembra più interessato a essere ascoltato e a raggiungere il pubblico, che non a essere un’impeccabile opera d’arte”, ha scritto il New York Times.

La decisione di commissionare e mettere in scena il lavoro di Reid e Perkins è parte della scelta della Dutch National Opera di realizzare il suo Green Deal, cercando di dar vita a produzioni sempre più sostenibili, per esempio limitando i viaggi degli artisti o studiando ogni modo per diminuire la propria impronta carbonica, come l’uso di energia rinnovabile e l’impiego di materiali riciclabili per le scene e i costumi. L’obiettivo è diventare quanto prima un teatro a emissioni zero.
Sul palcoscenico si alternano varie figure allegoriche, e nessuna di loro accetta responsabilità per il riscaldamento del clima: la Legge dice che deve rispecchiare il mondo e non salvarlo, secondo il Governo i cittadini non dovrebbero pretendere che la politica rimedi ai loro errori ed egoismi, mentre il Ceo, il capo d’azienda, sostiene che suo compito è di dare ai consumatori quello che chiedono. Poi ci sono quelli che si considerano vittime a vario titolo: il pilota e il contadino che non vogliono perdere il loro lavoro, o sull’altro versante il profugo climatico, che si chiede cos’abbia fatto di male per meritarsi la fuga dal suo paese.
“Non sono un’esperta del clima, né una sociologa e non so se questo lavoro possa fare una differenza – dice Ellen Reid –, ma penso che l’arte abbia un modo di permettere a chi ascolta di affrontare in modo più profondo domande scomode e situazioni scomode. Farlo in gruppo in un pubblico può far emergere modi di pensare diversi da quelli convenzionali. E quelli del clima sono temi potenti, esistenziali, per i quali vale la pena di sedersi e pensare insieme. Per questo credo che il nostro lavoro sia importante”.

Quanto però alla possibilità per un’opera di dare delle risposte, Reid allarga le braccia: “Penso che attraverso la musica, che interessa una parte diversa del nostro cervello, le persone siano in grado di ricevere maggiori informazioni. Ma non ho scritto quest’opera e in genere non scrivo musica perché ho delle risposte. L’ho fatto perché volevo porre la domanda e avere un pubblico che ascoltandola se la pone insieme”.
“The Shell Trial” si chiude con una nota dolce amara di pessimismo: il coro di bambini, che arriva sul palcoscenico provenendo dal retro del parterre e che all’inizio fa pensare a una visione di speranza, in realtà finisce per usare lo stesso linguaggio e dire le stesse cose fin lì dette dall’amministratore delegato. Concluso il 31 marzo l’esordio ad Amsterdam, il lavoro di Reid si appresta a varcare l’Atlantico, per sbarcare negli Stati Uniti, dove verrà rappresentato nella prossima stagione alla Philadelphia Opera, che è stata anche fra i committenti.

Lo spettacolo ha fatto da ouverture. Ai primi di aprile all’Aia è andato in scena il processo vero. La Shell, infatti, aveva fatto ricorso contro la sentenza di primo grado del 2021 e le parti si sono ritrovate nell’aula della Corte distrettuale, dove per quattro giorni i giudici hanno nuovamente ascoltato i loro argomenti. La sentenza definitiva è attesa non prima di giugno.
Molto però è mutato dal 2021. In primo luogo, è cambiato il contesto e la percezione delle opinioni pubbliche nei confronti del Green Deal, l’ambizioso piano per la transizione verde messo in atto negli ultimi quattro anni dall’Unione europea. Un eccesso di furore ideologico e normativo ha finito infatti per innescare paure, proteste e reazioni esasperate, non ultima quella degli agricoltori in tutta Europa. Col risultato che ora un ampio fronte politico, dai conservatori ai liberali, chiede di ridimensionarlo se non di smantellarlo. Ma oltre le percezioni, fenomeni sempre più estremi confermano che il cambiamento del clima sta pericolosamente accelerando: inondazioni, ondate di caldo torrido, siccità, desertificazione di intere regioni, migrazioni bibliche. Dall’altro lato la guerra di aggressione russa in Ucraina, e ora quella in medio oriente, hanno causato un’impennata generale dei prezzi dell’energia da idrocarburi. Una manna per Shell, così come per le altre multinazionali che dagli idrocarburi ricavano i loro maggiori profitti: nel 2022 il gruppo, nel frattempo diventato britannico, avendo stabilito la sua sede principale a Londra, ha totalizzato la cifra record di 42 miliardi di dollari. Al punto che, negli ultimi due anni, ha deciso di investire in venti nuovi progetti per la produzione di gas e petrolio, nonostante l’Iea, l’Agenzia internazionale dell’energia, abbia detto chiaramente che la neutralità carbonica nel 2050 possa essere conseguita solo a condizione che non vengano messi in attività nuovi giacimenti di gas naturale e petrolio.


In realtà, contestando l’assunto dell’Iea, Shell ha fatto anche di più: ha abbassato a meno 15-20 per cento l’obiettivo di riduzione di CO2 che si era autoimposta per il 2030 ed ha cancellato del tutto quello per il 2035 (che era meno 45 per cento) invocando l’accresciuta domanda di gas. Il gruppo mantiene però l’obiettivo finale di zero emissioni per il 2050, sostenendo addirittura che in tal modo potrà raggiungerlo più facilmente. “E’ un dito medio alzato contro il riscaldamento globale e tutti coloro che ne soffrono le conseguenze, che mostra la fondatezza dei nostri argomenti. Ancora una volta Shell vuole fuggire dalle proprie responsabilità ad agire, ma questa volta non potrà ignorare di nuovo la sentenza”, dice Donald Pols, il capo della ong Milieudefensie, che ha guidato la class action contro Shell. “Le basi scientifiche delle nostre richieste si sono consolidate – ha detto alla Corte nel primo giorno d’udienza Roger Cox, l’avvocato degli ambientalisti – i fatti sono quelli che contano e voi giudici siete l’ultimo bastione per difendere una civiltà dei diritti umani e un ambiente vivibile sotto minaccia”. Cox ha citato il più recente rapporto della Iccp, il Gruppo intergovernativo dell’Onu sul cambiamento climatico, secondo cui i rischi posti dai mutamenti ambientali sono diventati molto più grandi dal 2021 e occorre agire in modo più rapido di quanto non si pensasse ancora tre anni fa. “Ogni ulteriore ritardo sarebbe imperdonabile”, ha detto l’avvocato.

Eppure, anche gli argomenti di Shell, che ha mobilitato una falange di legali, appaiono piuttosto solidi e in parte fondati. “Un giudice non è semplicemente attrezzato per intervenire in una causa civile che ha implicazioni politiche nazionali, di cui spetta ai governi occuparsi”, ha detto in aula uno degli avvocati della multinazionale, Daan Lunsingh Scheurleer, secondo il quale Shell non elude affatto il dovere di agire contro il cambiamento climatico, per quanto è nelle sue possibilità. E ha citato gli investimenti per i combustibili sostenibili, ricordando anche che Shell sta costruendo uno dei più grandi impianti d’Europa per la produzione di biocarburante e sviluppando una delle più capillari reti di colonnine di ricarica per auto elettriche. In cifre, la multinazionale nel biennio 2023-25 prevede di investire da 10 a 15 miliardi di dollari, il 23 per cento del totale della sua spesa, in progetti per soluzioni a bassa intensità carbonica. Ma sulla politica climatica dei 70 stati nei quali è presente, Shell sostiene di non avere alcuna influenza. Quindi non può essere una corte a decidere di questioni simili. Di più, secondo i legali del gruppo, una simile pretesa può alla fine risultare controproducente per il clima, costringendo l’azienda britannica a rinunciare ad aree di business dove entrerebbero subito concorrenti meno attenti alla sostenibilità.

Un altro punto cruciale della difesa è che la sentenza originaria vada ben oltre le reali possibilità di intervento di Shell, visto che di fatto le ordina di fare tutto il possibile per diminuire anche le emissioni nocive dei suoi clienti. I quali, osservano gli avvocati, non hanno alcuna intenzione di cambiare le proprie abitudini: le navi da crociera continuano a navigare con combustibile pesante e gli aerei commerciali (1.270 voli in entrata e uscita ogni giorno lo scorso mese a Schiphol, l’aeroporto di Amsterdam) volano ancora col kerosene. Un’immagine che ci rimanda alle domande dell’opera di Reid: chi è responsabile, chi è complice, chi deve agire. C’è una parte di verità, ma è un fatto che Shell non sia poi così insignificante, essendo da sola responsabile del 2,7 per cento di tutte le emissioni annuali di CO2 al mondo, più volte quelle dell’intera Olanda: “Shell è attualmente uno dei più grandi inquinatori del pianeta”, dice Pols. “E’ una Grande Potenza privata”, nella definizione dell’avvocato Cox, secondo il quale la domanda di idrocarburi non esiste in un vuoto, ma viene anche stimolata dagli investimenti e dalle attività di lobby di Shell, che pertanto “è co-gestore di come sarà il futuro del mondo”.

Il processo dell’Aia viene seguito attentamente da tutti gli osservatori internazionali e la sentenza potrebbe avere conseguenze profonde nell’uno o nell’altro senso. Una conferma del giudizio di primo grado potrebbe incoraggiare altre class action: a gennaio la stessa Milieudefensie ha detto di voler portare in tribunale il gruppo bancario Ing, responsabile di finanziare affari nel campo dei combustibili fossili. Sul versante opposto, grandi multinazionali sperano in un segnale a loro favore: Exxon-Mobil ha querelato alcuni azionisti che chiedono al management più ambizione e coraggio nella transizione climatica, Total Energie vuole portare in tribunale Greenpeace, accusata di fornire false stime di emissioni nocive.
“Non voglio essere perfetto. Solo che non vogliamo fottutamente morire”, gridano in un megafono due attivisti del clima nell’opera di Reid, dopo aver protestato pacificamente per settimane davanti alla casa del capo di Shell. Avviene sul palcoscenico. Ma che sia nella Dutch National Opera o nell’aula della Corte distrettuale, il tema è lo stesso: siamo tutti in debito di una risposta.

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