i negoziati

L'accordo "opportuno" tra Israele e Hamas che tutti aspettano

Micol Flammini

L'intesa per la liberazione degli ostaggi e il cessate il fuoco bloccherebbe l'operazione a Rafah, fermerebbe gli attacchi di Hezbollah, tratterrebbe l'Iran e calmerebbe la società israeliana. C'è un ostacolo: Yahya Sinwar, l'uomo che dice sempre di no e finora ha rifiutato ogni proposta

I negoziati per arrivare a un accordo tra Israele e Hamas sono entrati nella fase di una corsa forsennata, di un via vai necessario e incessante  per stringere i tempi. Israele ha mandato i suoi uomini cruciali al Cairo, il capo del Mossad David Barnea e il capo dello Shabbak Ronen Bar, e questa sera il gabinetto di sicurezza si riunirà per parlare delle condizioni, prima di tornare di nuovo a negoziare in Egitto. L’accordo è visto come la barriera tra una fase della guerra e l’altra, come un argine o una porta su cui tutti stanno spingendo. Domenica la prima pagina di Haaretz aveva le foto di tutti gli ostaggi israeliani ancora tenuti prigionieri nella Striscia di Gaza, tra i volti che ormai tutti in Israele hanno imparato a conoscere e riconoscere, a guardare come membri di una famiglia allargata alle dimensioni di un paese, c’era la scritta: “Non c’è più tempo”. Il tempo si è fermato e non torna indietro, ma da quando si è ricominciato a parlare di negoziati, sembra che anche le ore, i minuti, i secondi abbiano una nuova velocità. Per il momento sia Israele sia Hamas hanno detto che c’è poco di nuovo, soltanto gli egiziani e qatarini hanno parlato di ottimismo. Per gli Stati Uniti è questo il momento di insistere e anche il discorso che Benjamin Netanyahu ha fatto domenica sera davanti al governo aveva dei toni diversi rispetto al solito. Netanyahu non ha parlato di azioni militari, ma di prospettive negoziali e ha  promesso una vittoria sempre più vicina. Un accordo permetterebbe di ritardare l’operazione nella città di Rafah, dove è rimasta l’ultima brigata di Hamas, rifornita dal contrabbando e dai miliziani che sono riusciti a sopravvivere ai combattimenti con Tsahal nel resto della Striscia. Ma a Rafah, oltre a Hamas, ci sono circa un milione e mezzo di civili, è la zone più popolata di Gaza, l’operazione non può partire senza che venga evacuata e senza che l’esercito israeliano si coordini con gli egiziani. Uno spostamento così cospicuo di popolazione sarebbe uno sforzo lungo, faticoso e doloroso, che un accordo sarebbe in grado di fermare o quantomeno di rimandare. Israele continua a dire che non ci sono alternative all’ingresso nell’ultima delle città del sud, eliminare Hamas vuol dire toglierle ogni capacità militare, Netanyahu ha detto che esiste già una data per l’offensiva a Rafah, e dirlo serve anche a far capire a Hamas che trattenere gli ostaggi non salverà l’organizzazione. 


Lunedì l’Iran ha celebrato la riapertura di una sede del consolato a Damasco, una settimana dopo l’attacco israeliano che, oltre a polverizzare la sede precedente, ha ucciso il generale pasdaran Mohammad Reza Zahedi e alcuni suoi sottoposti. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir-Abdollahian oggi era in Siria, nel celebrare la rapidissima riapertura ha minacciato Israele promettendo “giorni difficili” e elencando una serie di ambasciate che potrebbero essere colpite in giro per il mondo. La lista è lunga, la minaccia viene ripetuta, lo stato ebraico è in allerta, ma intanto anche Teheran aspetta un accordo: una fonte diplomatica ha riferito a Jadeh Iran che nel caso di un’intesa si asterrebbe dal rispondere all’attacco israeliano. Le divisioni su come far arrivare la vendetta contro lo stato ebraico sono consumate in un dibattito che morde il regime iraniano. Con un accordo tra Israele e Hamas anche il fronte nord si fermerebbe, come già accaduto a novembre dello scorso anno, durante l’unico cessate il fuoco raggiunto tra Israele e Hamas. Oggi Tsahal ha eliminato Ali Ahmed Hassin, comandante delle forze Radwan, che operano vicinissime al confine con Israele. Hassin pianificava e supervisionava gli attacchi è il trentesimo comandante ucciso dall’inizio della guerra che Hezbollah ha cominciato subito dopo il 7 ottobre, costringendo Israele a evacuare le città a nord, a disporre truppe a difesa del confine. 


Israele non passa un giorno senza protestare, i parenti delle famiglie degli ostaggi e i cittadini stanchi del governo sono diventati un unico fiume che inonda le strade davanti alle istituzioni. Gridano in coro akhshav, che vuol dire adesso, immediatamente: per i primi vuol dire “fate immediatamente un accordo”, per i secondi “dimettetevi immediatamente”. La liberazione degli ostaggi sarebbe un sollievo, potrebbe rompere la coalizione di governo con l’uscita dei partiti estremisti, che però, sondaggi alla mano, sanno che sono più deboli e con poco potere negoziale. Il ministro della Difesa Yaov Gallant ha detto: “Questo è il momento opportuno per un accordo”. Le proposte ci sono, rimane un problema: l’ultima parola spetta a un uomo rinchiuso in un tunnel a Gaza, Yahya Sinwar, che finora ha sempre risposto di no. Hamas oggi avrebbe detto di non poter rilasciare i 40 ostaggi inclusi nell’ultima proposta di cessate il fuoco perché dei 136 prigionieri almeno 100 sarebbero morti. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.