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Le divisioni dell'Ue sulle parole da usare con Israele e i due fronti inconciliabili

David Carretta

La mappa delle divergenze sul medio oriente che rendono Bruxelles irrilevante, oltre i veti. La linea Borrell e gli effetti sulle altre crisi 

Bruxelles. Al Consiglio Affari esteri lunedì, l’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell, ha criticato l’Ungheria per il mancato accordo su una dichiarazione comune per chiedere a Israele di non procedere con l’offensiva contro Hamas a Rafah e “una pausa umanitaria immediata che porti a un cessate il fuoco sostenibile” a Gaza. “Questa dichiarazione è stata sostenuta da ventisei” paesi, ha detto Borrell. Il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, è stato l’unico a mettere il veto, come accade regolarmente sull’Ucraina. L’Ungheria ha anche bloccato le sanzioni dell’Ue contro i cosiddetti “coloni violenti” in Cisgiordania. Ma i veti di Viktor Orbán non sono sufficienti a spiegare l’irrilevanza dell’Ue in medio oriente. Dall’attacco di Hamas del 7 ottobre, i ventisette sono profondamente spaccati, con due gruppi che si contrappongono: i pro e i contro Israele. Al Consiglio europeo del 21 e 22 marzo i capi di stato e di governo cercheranno di trovare una nuova posizione comune sul medio oriente. 

L’impresa è difficile. La posizione ufficiale – quella che dovrebbe essere rispettata da alti funzionari delle istituzioni dell’Ue e dagli stati membri – non è stata aggiornata dal vertice del 26 e 27 ottobre. Quattro mesi fa, i ventisette avevano trascorso diversi giorni a litigare su due parole su Gaza: chiedere una “pausa umanitaria” o delle “pause umanitarie”? Germania, Austria e paesi dell’est non volevano alcun ultimatum per Israele: pause (al plurale) era una formula per indicare il loro via libera a ulteriori attacchi per ripulire la Striscia da Hamas. Francia, Spagna, Irlanda, Belgio e Paesi Bassi, invece, volevano legare le mani al governo di Benjamin Netanyahu: pausa (al singolare) era l’equivalente di un cessate il fuoco. Alla fine era prevalsa una formulazione accettabile per il cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Il Consiglio europeo “chiede di assicurare un accesso umanitario continuo, rapido, sicuro e senza restrizioni, nonché l’arrivo degli aiuti ai bisognosi attraverso tutte le misure necessarie per le esigenze umanitarie, compresi pause e corridoi umanitari”. Ma appena finito il vertice, il presidente francese, Emmanuel Macron, si era presentato davanti alla stampa per dire che l’Ue voleva una tregua. Il premier spagnolo, Pedro Sánchez, aveva cantato vittoria perché le conclusioni del Consiglio europeo evocavano “lo svolgimento, a breve, di una conferenza di pace internazionale” (che non c’è mai stata).

Le battaglie linguistiche continuano ancora oggi. La dichiarazione sbandierata da Borrell e sostenuta dai 26 non è una richiesta di cessate il fuoco. Si limita a chiedere “una pausa umanitaria immediata (al singolare) che porti a un cessate il fuoco sostenibile”. Agli occhi dei tedeschi – che hanno esitato ad accettarle – la formula implica un processo per tappe, che dovrebbe comprendere anche la liberazione di tutti gli ostaggi da parte di Hamas. Questa posizione potrebbe essere adottata dal Consiglio europeo che si terrà tra oltre un mese. Dopo decine di migliaia di morti palestinesi “è il comun denominatore, ma molto minimo, che arriva troppo tardi”, spiega al Foglio un diplomatico di un paese schierato nel campo anti israeliano. Nel frattempo i primi ministri di Spagna e Irlanda, Pedro Sánchez e Leo Varadkar, hanno chiesto alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, di sospendere l’accordo di associazione tra Ue e Israele, accusando il governo israeliano di violare le condizioni sui diritti umani. E’ un gesto simbolico, non solo perché von der Leyen è schierata nel campo pro israeliano, ma anche perché serve l’unanimità degli stati membri.

Le divisioni tra i ventisette si riflettono all’interno delle istituzioni dell’Ue. La solidarietà a Israele mostrata da von der Leyen dal 7 ottobre – compresa la visita a Tel Aviv sei giorni dopo, interpretata come un assegno in bianco a Netanyahu a nome dell’Ue – è stata duramente criticata dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e dall’Alto rappresentante Borrell. Ai loro occhi, il sostegno al governo israeliano mina la causa dell’Ucraina, che l’Ue sta cercando di promuovere nel “sud globale”. Ossessionati dall’accusa di “doppio standard”, Michel e Borrell fanno campagna attivamente per un cessate il fuoco. L’Alto rappresentante è impegnato anche in uno scontro con il commissario all’Allargamento, l’ungherese Oliver Varhelyi, e la stessa von der Leyen sugli aiuti ai palestinesi e i finanziamenti all’Unrwa. Per due volte, con la benedizione della presidente della Commissione, Varhelyi ha congelato i versamenti per verificare che i fondi dell’Ue non finissero a Hamas. L’ultima – dopo la scoperta del coinvolgimento di dipendenti dell’Unrwa nell’attacco del 7 ottobre – Borrell ha contestato la versione di Israele, sostenendo che non ha fornito alcuna prova.

La Germania e von der Leyen ritengono che il modo migliore per influenzare il governo Netanyahu sia mostrarsi solidali in pubblico e far passare messaggi più duri dietro le quinte. Sánchez, Varadkar e Macron hanno ragioni di politica interna per difendere i palestinesi, anche a costo di apparire giustificazionisti di Hamas: l’alleanza con l’estrema sinistra in Spagna, la lotta per l’indipendenza in Irlanda, le grandi comunità musulmane e la minaccia terroristica in Francia. Il risultato delle divisioni è l’inesistenza dell’Ue in medio oriente. “E’ quindi molto difficile svolgere un ruolo importante se all’interno del club ci sono posizioni così diverse”, ha riconosciuto Borrell. Peggio. La spaccatura tra i ventisette su Gaza ha considerevolmente indebolito la loro determinazione a difendere l’Ucraina dall’aggressione russa.

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