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Riflessioni

A sud del Rio Grande il liberalismo resta un pensiero triste e solitario

Guido Vitiello

Una foto di Fidel Castro e il sempre attuale "Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario" di Carlos Rangel, un libro che resiste alle critiche e alle accuse di reazionarismo, rimanendo un punto di riferimento nel dibattito politico latinoamericano

Conservo da più di vent’anni una fotografia così bella che sembra finta. Somiglia a una delle illustrazioni di “Commissariato degli archivi” di Alain Jaubert, magnifica antologia dell’arte del fotoritocco totalitario, da Hitler a Stalin a Mao. Nella fotografia si vede Fidel Castro che mostra imperiosamente quattro dita a Gianni Minà, pace all’anima sua, il quale le fissa tutto gongolante, come se un re taumaturgo gli stesse imponendo le mani. Suppongo che l’immagine risalga materialmente al 1987, l’anno della storica intervista di sedici ore di Minà al dittatore cubano, ma spiritualmente appartiene senz’altro al 1984, anzi a “1984”. In particolare, richiama la scena del romanzo di George Orwell in cui Winston, prigioniero nelle segrete del ministero dell’Amore, viene edotto sui fondamenti della filosofia del Partito dal suo torturatore O’Brien, che gli mostra appunto quattro dita. “Quante dita sono, Winston?”. Lui ne vede quattro, ma impara che se il Partito vuole possono essere tre o cinque – o anche cinque, quattro e tre simultaneamente. Architrave dell’ideologia è la menzogna, ma una menzogna tutta particolare, una menzogna che va creduta a dispetto dell’evidenza dei sensi fino al punto in cui i sensi obbediscono e la prendono per vera. Non per caso, nel 1984 lo scrittore spagnolo Fernando Arrabal scrisse una bellissima lettera a Fidel Castro in forma di pamphlet, accusandolo di aver portato in terra l’incubo di Orwell. Quando vidi la foto, mi sembrò una perfetta allegoria della relazione tra la sinistra europea (italiana in particolare) e l’America latina, trasformata, come scrisse argutamente Jean-François Revel, in “un’estensione del Quartiere latino”. 
 

È una storia di fantasmi e di miraggi, di trompe-l’oeil e di traveggole, nonché di cecità deliberata e autoinflitta. Nessuno strumento consente di recuperare il dono della vista più rapidamente ed efficacemente del libro sempreverde del venezuelano Carlos Rangel, “Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario”, un classico del 1976 che passò in Italia come una meteora nel 1980, per le Edizioni di Comunità, e che Ibl Libri ripubblica ora con un apparato prezioso (le varie prefazioni e postfazioni di Revel, di Carlos Alberto Montaner, dello stesso Rangel e di suo figlio, la nuova prefazione di Loris Zanatta). Quando mi ci imbattei per la prima volta fu un’illuminazione, e corsi a procurarmi tutto ciò che Rangel aveva scritto, in particolare il libro sul terzomondismo e la raccolta di saggi e articoli “Marx y los socialismos reales”, che pure un giorno qualcuno dovrà tradurre. Erano gli anni in cui il buon selvaggio e il buon rivoluzionario erano tornati in scena in versione postmoderna grazie al Subcomandante Marcos e alla rivolta indigena nel Chiapas; ed erano gli anni in cui una parte della sinistra occidentale, nella prima fase del lutto dopo il crollo del muro – la fase della negazione –, faceva finta di credere a quell’improbabile guevarismo a fumetti. L’origine della fata morgana zapatista era illuminata dal libro di Rangel: al socialismo è affidato il compito di restaurare la condizione edenica che aveva preceduto il trionfo del capitalismo e l’impero degli odiati vicini del piano di sopra, gli Stati Uniti. Il buon rivoluzionario affranca il buon selvaggio e lo guida verso un’utopia che ricalca un po’ troppo da vicino le reducciónes gesuitiche del Paraguay del Diciassettesimo secolo. Se sentite una nota di cattocomunismo quasi pasoliniana, beh, ci sentite bene.
 

Come tutti i classici, il libro di Rangel si mantiene in buona salute nonostante gli anni; ma più dei normali classici, circondati di vestali reverenti, “Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario” ha dimostrato di avere tempra e scorza sufficiente per sopravvivere alle violenze, alle calunnie e alle ingiurie. In vita (morì suicida nel 1988), Rangel fu accusato di essere reazionario, amico dell’imperialismo e agente della Cia, come sempre accade ai liberali latinoamericani (come dimenticare il demenziale slogan di quegli anni, “Reagan rapaz / tu amigo es Octavio Paz”?). E il libro fu bruciato nel corso di una cerimonia pubblica all’Università centrale del Venezuela per aver “disonorato la virtù storica della nazione indigena”. Altro che “pensiero unico”: a sud del Rio Grande, il liberalismo è storicamente un pensiero solitario. Diceva Rangel che “in un’università latinoamericana essere rivoluzionari è altrettanto eretico e rischioso che essere cattolici ferventi in un seminario irlandese”. Non so come stiano oggi le cose, confido che siano cambiate in meglio, ma ci sarà pure un motivo se l’import-export degli immangiabili pasticci post operaisti della Italian Theory è così fiorente proprio in quella parte del mondo.

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