dopoguerra

I piani americani per la Striscia si fanno seri

L'ordine esecutivo della Casa Bianca di Biden ai coloni è una via di uscita politica per Bibi

Micol Flammini

Gli Stati Uniti iniziano a parlare della demilitarizzazione di Gaza e decidono di sanzionare i coloni che attaccano i palestinesi. Mentre Hamas continua a studiare la proposta di accordo prolungando la guerra, Biden manda un messaggio e un avvertimento

Per una pace duratura, quando la guerra tra Israele e Hamas sarà finita, bisognerà apportare dei cambiamenti importanti, radicali, in tutta la parte di medio oriente in cui si stanno concentrando i combattimenti. Gli Stati Uniti insistono su questo punto dall’inizio, ritengono che bisogna preparare un “piano per il dopo” prima che la guerra finisca. L’alternativa è ritrovarsi con un altro 7 ottobre al quale seguirebbe una guerra ugualmente devastante. I piani di Hamas sono chiari, intende ripetere o quadruplicare le stesse violenze compiute contro i kibbutz e non importa se sa già che l’esercito israeliano risponderebbe con altrettante bombe sulla Striscia: lo sapeva anche il 7 ottobre. Sono gli Stati Uniti i promotori di un cambiamento definitivo e un piano, non annunciato dalla Casa Bianca ma di cui giornalisti e testate molto vicine al presidente americano hanno iniziato a far trapelare delle indiscrezioni, prevede il riconoscimento da parte americana di uno stato palestinese e un piano per demilitarizzare Gaza. Il primo punto sarebbe storico, di una portata dirompente, ma gli Stati Uniti, anche secondo le informazioni non ufficiali, sono rimasti vaghi, hanno sottolineato che stanno prendendo in considerazione tutte le ipotesi e su questa vaghezza si basa la mancanza di una reazione da parte del governo israeliano. In Israele la soluzione dei due stati rimane impopolare, ma in molti sono convinti che sarà una tappa inevitabile: il riconoscimento di uno stato palestinese da parte americana prima o poi dovrà arrivare, ma sarebbe accettabile  se Gaza non rappresentasse più una minaccia per lo stato ebraico. C’è soltanto un modo, soltanto una condizione che rende questa cosa tollerabile e sta nella sua demilitarizzazione, che rappresenta anche uno dei punti su cui Gerusalemme insiste durante i negoziati. Nelle guerre, togliere le armi a chi ha iniziato un conflitto non è una decisione rara e toglierle a Gaza vuol dire eliminare Hamas. Non saranno mai Yahya Sinwar o Mohammed Deif, i due leader che si nascondono e si muovono nei tunnel della Striscia sfidando Tsahal e usando civili e ostaggi come scudi, ad accettare questa condizione: la loro forza, tutto il potere che hanno costruito si fonda sull’uso della violenza. 


Il dopoguerra deve ancora arrivare, per il momento si tratta per far tornare gli ostaggi e per il cessate il fuoco. Ieri un funzionario palestinese ha detto ai media israeliani che Hamas sta ancora pensando – e quando si dice che il gruppo studia la proposta vuol dire che la leadership che vive in Qatar e quella che sta nella Striscia cercano un punto di accordo innanzitutto tra di loro – proverà a chiedere la fine della guerra ma difficilmente rigetterà l’accordo. Il piano per la tregua è stato  approvato da Israele, Stati Uniti, Egitto e Qatar già alla fine della scorsa settimana, e mentre Hamas studia la proposta, la guerra va avanti. Sinwar non si sente vinto, crede di poter continuare a combattere e finché il gruppo si mostra imprendibile, in grado di sparare da Gaza nord, vuole continuare a sparare. Ismail Haniyeh, il nome più riconoscibile della leadership di Hamas che vive a Doha definita “politica” in modo fuorviante, è invece ansioso di trovare una via di fuga che porti a una normalizzazione percepita del gruppo: da mesi porta avanti dei colloqui per l’adesione all’Olp e per non vedersi escludere dal futuro di Gaza.


Del piano americano per ridisegnare un medio oriente più sicuro fa parte però anche il rapporto con Israele e Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo che permette agli Stati Uniti di imporre nuove sanzioni ai coloni israeliani coinvolti in attacchi violenti contro i palestinesi. Potenzialmente, l’ordine esecutivo può essere esteso anche ai politici e ai funzionari del governo che fomentano azioni violente. Dal 7 ottobre ci sono stati quasi cinquecento attacchi contro i palestinesi in Cisgiordania, sono morte otto persone e ne sono state ferite più di cento. Per il momento sono quattro gli israeliani sanzionati, ma è chiaro che l’ordine punta   a funzionari  come Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza nazionale già rimproverato dagli americani per la redistribuzione dei fucili tra i cittadini, e Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze che ha tenuto bloccati i fondi per pagare gli stipendi dell’Anp. Il messaggio degli Stati Uniti al premier Benjamin Netanyahu è molto chiaro ed è un invito a rompere con la parte del suo governo che mette a rischio la sicurezza. Non è una sanzione al premier, piuttosto l’offerta di una via di uscita politica. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.