Un bombardiere americano B-1 Rockwell (foto Getty)

a che ora è la guerra?

Arrivano gli americani, ma in Siria e Iraq i pasdaran si sono volatilizzati

Luca Gambardella

L’attacco punitivo a scoppio ritardato dà tempo alle trattative su Gaza. Ma nasconde diversi rischi

A sei giorni dall’attacco lanciato dalle milizie filoiraniane alla base americana in Giordania che ha ucciso tre militari e ne ha feriti altri 34, l’operazione punitiva in Siria e Iraq potrebbe essere imminente. Secondo alcuni funzionari dell’Amministrazione americana sentiti ieri dal Wall Street Journal, l’attacco potrebbe iniziare entro questo fine settimana e dovrebbe durare alcuni giorni. L’attenzione inusuale con cui per giorni gli Stati Uniti hanno condiviso con la stampa i dettagli sulle tempistiche e sulle modalità dell’attacco dimostra la volontà di non innescare una controreazione troppo violenta dell’Iran. Joe Biden ha deciso che  la soluzione diplomatica sia la strada da seguire e  non intende combattere una guerra su larga scala in medio oriente. “Non è ciò che cerco”, ha ripetuto anche martedì scorso, dopo che l’attacco alla base Tower 22 ha oltrepassato l’ideale “linea rossa” che l’Amministrazione americana si era autoimposta. Oggi il segretario di stato Antony Blinken è in Israele per tentare di dare seguito alla strategia del presidente: contenere il caos nella regione e, nel frattempo, raggiungere una tregua a Gaza.  Per farlo, Biden ha bisogno di tempo e di resistere alle pressioni interne che gli chiedono una risposta più decisa. 

  


 
 

La successione degli eventi nell’ultima settimana conferma la decisione deliberata degli americani di non infiammare troppo un equilibrio precario. L’attacco alla base  in Giordania risale a domenica notte; dopo un giorno di riflessione, martedì Biden dichiara di avere deciso come rispondere all’Iran; mercoledì gli Stati Uniti annunciano che le verifiche fatte dimostrano che i responsabili dell’attacco sono gli uomini di Kataib Hezbollah, nonostante la Resistenza islamica irachena, di cui Kataib Hezbollah è la milizia capofila, avesse già rivendicato l’operazione tre giorni prima; sempre mercoledì, Kataib Hezbollah comunica la temporanea sospensione degli attacchi contro gli americani; nelle stesse ore, secondo fonti locali, nella Siria orientale e in Iraq le basi delle milizie si svuotano dei comandanti iraniani, che sarebbero tornati in Iran, dove si ritengono meno probabili gli eventuali attacchi americani; giovedì, mentre sulla Siria orientale splende il sole e le notti sono limpide, anonimi funzionari dell’Amministrazione dichiarano alla Cbs che l’operazione punitiva partirà a breve, ma che si attendono condizioni meteorologiche favorevoli per facilitare l’individuazione degli obiettivi; lo stesso giorno, altri funzionari anonimi, questa volta dell’intelligence americana, dicono a Politico che a loro avviso l’Iran non controlla le milizie in Iraq e Siria, lasciando intendere che l’attacco in Giordania non sia frutto di un ordine diretto di Teheran. “Non è credibile l’idea che Kataib Hezbollah abbia agito senza l’approvazione dell’Iran”, spiega al Foglio Michael Knights, esperto di Iraq del Washington Institute. “Un generale iraniano, definito ‘assistente al jihad’, presiede ogni consiglio di guerra di Kataib Hezbollah ed è aggiornato su ogni azione intrapresa, anche perché ognuna di queste azioni impiega le armi fornite dall’Iran, che ha potere di veto adesso sulle operazioni”. Il giorno prima della tregua annunciata da Kataib Hezbollah, il comandante delle forze speciali iraniane al Quds, Esmail Qaani, ha fatto visita a Baghdad. Un viaggio “non certo casuale”, secondo Knights, ma che sarebbe servito all’Iran per convincere le milizie a tornare alla moderazione dopo l’attacco in Giordania.

  

 

Nel frattempo in questi giorni buona parte dei comandanti iraniani dislocati nelle basi delle milizie fra Siria e Iraq è sparita nel nulla, secondo fonti locali riportate da Reuters. Più che l’operazione punitiva americana, a preoccupare gli iraniani sono i bombardamenti chirurgici compiuti dagli israeliani in Siria, cinque in poco più di un mese. Ieri ne hanno sferrato un altro a Damasco, in cui è stato ucciso un altro consigliere militare dei pasdaran. Gli iraniani sospettano che nel regime siriano si nascondono delle talpe che comunicano a Israele dove, quando e chi colpire. 

 

Ma al di là della volontà di mantenere una posizione di cautela nei confronti dell’Iran per facilitare i negoziati su Gaza, secondo molti osservatori la postura americana in Siria e Iraq si va via via indebolendo. La settimana scorsa, il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha annunciato l’avvio di trattative con il governo iracheno per discutere di una nuova modalità di cooperazione militare fra i due paesi. Tradotto, significa la fine della missione internazionale a guida americana iniziata dieci anni fa per sconfiggere lo Stato islamico. Non si tratta di un reale ritiro, ma di un “ridimensionamento delle forze americane impegnate in Iraq”, come ha spiegato il governo di Baghdad. Negli stessi giorni, Foreign Policy e Politico hanno riportato voci di alcuni funzionari dell’Amministrazione su un possibile ritiro americano dalla Siria. La Casa Bianca ha smentito, ma intanto si è alimentata una confusione pericolosa. Perché mentre gli americani sono impegnati a difendersi dagli attacchi dell’Iran, lo Stato islamico si va riorganizzando. Dopo l’attentato a Kerman, in Iran, del 3 gennaio i canali social del Califfato ne hanno rivendicati un altro centinaio in Africa, 60 solo nel nord-est della Siria nel mese di gennaio. Ritirarsi adesso darebbe ulteriore vigore a ciò che resta del Califfato, che non è sconfitto del tutto.

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.