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L'editoriale del direttore

La nuova Shoah, considerazioni per gli smemorati

Claudio Cerasa

Il 7/10 ha trasformato la memoria dell’Olocausto in un impegno quotidiano. Per onorarlo, è ora di prendere sul serio ciò che dicono i nemici del popolo ebraico. Testualmente e senza voltarsi dall’altra parte. Ascoltate Mattarella  

Quando dicono che odiano gli ebrei, credetegli. Quando dicono che vogliono spazzare via Israele, ascoltateli. Quando dicono che vogliono impedire a un ebreo di essere ebreo, non liquidateli. Quando dicono che vogliono uccidere tutti i sionisti, non mettevi a fischiettare. Quando dicono che lo rifaranno, che le scene del 7 ottobre sono solo l’inizio del film, prendeteli sul serio. Il Giorno della Memoria, lo sapete, è una ricorrenza importante, internazionale, che viene celebrata ogni anno il 27 gennaio per commemorare le vittime dell’Olocausto. Per anni, il ricordo più forte dell’Olocausto è stato affidato alle parole, alle storie, ai volti, alle testimonianze dei pochi superstiti ancora in vita, a chi l’orrore, quell’orrore, lo ha visto negli occhi, lo ha toccato con le proprie mani, lo ha ancora lì sulla pelle. Per anni, la memoria dell’Olocausto è stata confinata nella sfera delle commemorazioni del passato. Oggi, improvvisamente, la memoria dell’Olocausto, della deportazione degli ebrei, dei rastrellamenti, della persecuzione globale, è tornata a essere parte del nostro presente e non solo del nostro passato. Il 7 ottobre – che ieri, con coraggio, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito “una raccapricciante replica degli orrori della Shoah” – ha trasformato il Giorno della Memoria in un esercizio quotidiano che non si limita più al ricordo degli orrori del passato, al dovere di fare di tutto e di più per dire mai più, ma che ha lasciato il posto a un sentimento diverso, a un’idea diversa, all’interno della quale vive una dimensione nuova, che riguarda non solo Israele, non solo il popolo ebraico, ma tutti coloro che hanno a cuore una certa idea di libertà. Avevamo detto mai più, e invece è successo. Cosa dobbiamo fare per evitare, ora, che il nostro sincero “mai più” possa essere utile per scongiurare un nuovo antisemitismo, una nuova, come ha detto ieri Mattarella, “indicibile, feroce strage antisemita di innocenti”? 


Oggi, come dimostrano gli sciacalli che hanno portato Israele alla Corte penale internazionale per rovesciare contro Israele, l’unica democrazia del medio oriente, l’unica che si preoccupa di usare i militari per proteggere i civili e noi i civili per proteggere le milizie, l’accusa di genocidio, senza ricordare che le uniche realtà che in medio oriente hanno come obiettivo la distruzione sistematica di una popolazione e di una comunità religiosa sono i fondamentalisti islamici che sognano di spazzare via il popolo ebraico dalla mappa geografica, per cancellare il loro stato dopo aver cancellato la loro presenza nei paesi arabi, oggi, si diceva, per onorare il Giorno della Memoria occorre però qualcosa di più che commemorare le tragedie del passato e asciugarsi le lacrime per le tragedie del presente. Oggi, per difendere la memoria, per custodirla, per proteggerla, per darle un senso bisognerebbe compiere un piccolo gesto rivoluzionario: ascoltare con attenzione cosa dicono i nemici di Israele, i nemici del popolo ebraico, e iniziare a prendere sul serio quello che dicono, senza alzare le spalle e senza pensare, come al solito: maddai, ma davvero vuoi credere a quelle cose lì?

 

Qualche giorno fa, il Wall Street Journal, in uno dei suoi fantastici ritratti-intervista del sabato, ha passato del tempo con un personaggio formidabile. Si chiama Yigal Carmon. E’ il presidente e co-fondatore di Memri, il Middle East Media Research Institute, un sito che monitora e traduce trasmissioni televisive, giornali, sermoni, post sui social media, libri di testo e dichiarazioni ufficiali in arabo, farsi e molte altre lingue, frasi pronunciate dagli islamisti integralisti, e in un articolo del 31 agosto aveva previsto quello che sarebbe accaduto poche settimane dopo: “Segni di una possibile guerra nel periodo settembre-ottobre”. Carmon si era limitato a mettere insieme i fili. A citare le provocazioni di Hezbollah, a monitorare l’escalation di violenza in Cisgiordania, a registrare le minacce crescenti di Hamas. E nel farlo, Memri non fa altro che prendere sul serio i terroristi quando indicano un obiettivo, quando promettono di distruggere Israele (l’Iran), quando promettono di voler spazzare via il popolo ebraico (Hezbollah), quando affermano di voler costruire un califfato islamico (Hamas) che si estenda dalla Palestina a tutta la regione, e non solo lì, e quando sostengono di voler portare, come fanno gli houthi, “morte all’America, morte a Israele, una maledizione sugli ebrei, la vittoria dell’islam”. Ci sono molti modi per ricordare cosa significa oggi, per tutti noi, per chi sa che difendere Israele, con tutti i suoi problemi, i suoi vizi, le sue contraddizioni, significa ancora oggi difendere la libertà. Il modo peggiore è pensare che abbia ragione chi ha scelto di portare all’Aia Israele, per dimostrare la sua predisposizione al genocidio, per dimostrare che i nazisti nel nuovo secolo sono gli israeliani. Il modo migliore, forse, è, dopo aver fatto proprie le parole di Mattarella, ricordarsi che quando i terroristi parlano, quando minacciano, quando promettono, quando indicano un obiettivo vale la pena ascoltarli e vale la pena iniziare a ricordare che per dire mai più bisogna avere il coraggio di dare alle parole del terrore il giusto peso. Non contestualizzare, ma capire, condannare, neutralizzare. Gli autori del 7 ottobre dicono, ancora oggi, che lo rifaranno. E più che chiedersi cosa debba fare Israele per porre fine alla guerra bisognerebbe chiedersi perché chi ha il potere di intervenire in medio oriente non faccia di tutto per chiedere ad Hamas di compiere gli unici due gesti che porrebbero fine al conflitto, agli orrori e ai morti: arrendersi e restituire gli ostaggi. Nel Giorno della Memoria, meglio non essere smemorati. 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.