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l'indagine

Dal fiume al mare, ma non sanno di cosa parlano. Studenti che confondono le acque su Israele

Daniela Santus

Gli israeliani hanno aggredito i palestinesi il 7 ottobre e stanno compiendo un genocidio. In Israele vige l’apartheid. Gli ebrei nel mondo sono due miliardi e hanno troppo potere. Fake news e fantasie sconcertanti tra i ventenni. Un sondaggio

Nel corso di quest’anno accademico, diversamente dal passato, ho lasciato un poco da parte i miei classici argomenti di didattica legati alla geografia della religione e alla geopolitica, per concentrarmi maggiormente sugli aspetti della sostenibilità, dei diritti umani e sugli studi di genere, seppur sempre nel contesto dei paesi mediorientali. In parte ho rimpianto questa scelta in quanto, dopo il 7 ottobre, sarebbe stato molto interessante potermi confrontare con le mie studentesse e i miei studenti per capire quale fosse la loro percezione degli eventi accaduti in Israele. Pensavo comunque che la tematica affrontata avrebbe potuto fornire le giuste lenti per leggere anche quanto accaduto in Israele ad opera dei miliziani di Hamas. Così, in occasione del primo appello d’esami, avendo un nutrito numero di studenti riuniti, ho chiesto loro di rispondere – in via del tutto volontaria – a un breve sondaggio anonimo relativo proprio ai fatti del 7 ottobre. 

Dopo 60 ore di lezioni dedicate a discorsi sulla violenza di genere e sul disprezzo dei diritti umani, ero davvero convinta di aver creato quella significativa base di curiosità che avrebbe permesso loro di comprendere i fatti al di là della propaganda.
Ha accettato l’invito a partecipare al sondaggio il 97 per cento di presenti. Ho così raccolto 137 questionari compilati da 110 studenti della triennale di turismo (che hanno seguito il mio corso di quest’anno) e 27 studenti della magistrale (che hanno seguito sia l’insegnamento di quest’anno sia quello, negli anni passati, in cui trattavo specificamente argomenti legati al conflitto israelo-palestinese). Ho poi sottoposto a sondaggio altri studenti incontrati nelle aule studio, nelle biblioteche e nei corridoi del palazzo universitario, raccogliendo un totale di 58 ulteriori questionari, che chiamerò “altri”. In questo caso si è trattato di studenti e studentesse che non sono mai venuti in contatto con i miei corsi. L’ipotesi di partenza era che la conoscenza “scientifica” degli argomenti – nel senso di conoscenza approfondita scevra di propaganda distorsiva – può aiutarci a riconoscere e respingere le fake news. L’analisi dei dati ha in parte confermato l’ipotesi di partenza, riservando tuttavia significative sorprese.

 

Alla prima domanda, che richiedeva se fossero a conoscenza dei fatti accaduti il 7 ottobre in Israele, il 18 per cento di tutti i 195 studenti ha segnato di no. Ho presupposto, pertanto, di trovarmi di fronte a una netta maggioranza di studenti universitari informati sul tema. E’ stata dunque la prima delle tante sorprese notare come, quasi l’86 per cento dell’intero campione, avesse poi dichiarato, nella seconda risposta, di aver capito che “l’esercito israeliano aveva attaccato i civili palestinesi”. Soltanto 30 studenti (il 100 per cento del gruppo magistrale e poco meno del 3 per cento del gruppo triennale) aveva compreso che l’attacco era stato compiuto da Hamas. Alla terza domanda, che chiedeva se gli israeliani avessero in qualche modo meritato gli stupri e le torture cui sono stati sottoposti, 14 studenti (3 del gruppo triennale e 11 del gruppo “altri”) hanno risposto affermativamente perché “gli israeliani da sempre rubano le terre altrui”. Si tratta del 7 per cento del totale, non un grande dato, tuttavia è drammatico pensare che, non soltanto nel XXI secolo si ammettano stupri e torture, ma lo si faccia giustificando il proprio pensiero con l’accusa di furto di terra. Fa tornare alla mente le accuse medioevali di avvelenamento dei pozzi e non è una bella sensazione, soprattutto in ambiente accademico.

 

Sempre l’86 per cento dei tre gruppi riuniti ritiene che Israele stia compiendo un genocidio del popolo palestinese (25 studenti, pari all’89 per cento del gruppo magistrale, e 5 studenti, pari a poco meno del 5 per cento del gruppo triennale, hanno invece risposto di no), l’82 per cento che in Israele esista l’apartheid (le risposte contrarie corrispondono al solo gruppo magistrale) e nuovamente il 7 per cento (2 studenti del gruppo triennale e 12 del gruppo “altri”) pensa che i rapimenti dei bambini siano una forma di lotta accettabile, “se inflitta agli israeliani”. In altre parole, è lecito rapire un neonato israeliano come forma di lotta, non sarebbe lecito se il neonato fosse di un’altra nazionalità.

 

La vera sorpresa, tuttavia, giunge dalla risposta alla domanda successiva che chiedeva: “Anche il nord d’Israele è attaccato quotidianamente da centinaia di missili, tanto che diversi comuni israeliani hanno dovuto essere evacuati: secondo lei chi li sta sparando e perché?”. Da chi ha scritto: “Non sono molto informato, ma ritengo sia un modo vile e crudele di sfruttare le tecnologie militari in questo contesto” (e chissà in quale contesto andrebbero utilizzate le tecnologie militari per non risultare vili e crudeli) a chi ha affermato: “Per motivi legati alla religione e al potere” o anche “Combattenti palestinesi a causa dei trattamenti ricevuti dagli israeliani” o “La Palestina, per impossessarsi d’Israele” oppure ancora “Hamas”, “Gli alleati della Palestina” e via discorrendo. Sin qui tutto abbastanza chiaro di un certo qual modo di pensare, anche se a tratti confuso. Una totale confusione si manifesta tuttavia in risposte come: “A sparare sono coloro che difendono gli ebrei”, “Potenze mondiali, come gli Usa, per proteggere i civili palestinesi”, “Gli stati potenti”, “Per autodifesa, dopo quello che è accaduto”, “Gli israeliani, per dare la colpa agli ebrei”, “Hezbollah per aiutare gli ebrei palestinesi”. Proprio così, anch’io ho dovuto rileggere più volte.

 

Alla decima domanda, volutamente una ripetizione della terza, ma espressa con parole leggermente differenti: “Le torture inflitte alle ragazze israeliane il 7 ottobre sono state di una ferocia inaudita, secondo lei, la tortura su donne, ragazze, anziane e bambine è una forma di lotta accettabile, se inflitta agli israeliani?”, il 2 per cento ha risposto di sì. Si tratta di 4 studenti in totale (2 del gruppo triennale e 2 del gruppo “altri”), forse i dieci ulteriori studenti che avevano giustificato le violenze nella terza risposta ci hanno ripensato. Qualcuno ha motivato il suo pensiero scrivendo che non è accettabile perché “anche gli israeliani sono esseri umani, come i palestinesi”, altri hanno scritto che “non è giusto rispondere con violenza alla violenza”. Non so se voi, che state leggendo, riuscite a raccapezzarvi, io faccio fatica.

Per riassumere, per questi giovani tra i 20 e i 25 anni, salvo poche eccezioni rappresentate dal gruppo di studentesse e studenti magistrali, gli israeliani hanno aggredito i palestinesi il 7 ottobre, sempre gli israeliani stanno compiendo un genocidio, in Israele vige l’apartheid, a sparare sulle comunità del nord d’Israele sono gli Stati Uniti per difendere i civili palestinesi o gli israeliani stessi per incolpare gli ebrei o hezbollah per aiutare gli ebrei palestinesi. Però le torture, per fortuna, non vanno bene – o meglio, possono andare bene alla domanda tre, ma non vanno decisamente bene alla domanda dieci – perché anche gli israeliani sono esseri umani come i palestinesi!

Il questionario andava poi più nello specifico, per testare le conoscenze dei nostri intervistati che, ripeto, sono studenti universitari e, dunque, la futura classe dirigente e insegnante italiana!

 

Il numero degli ebrei nel mondo, ad esempio, è stato esageratamente sovrastimato. A parte 32 studenti (tutti i 27 della magistrale, 2 della triennale e 4 del gruppo “altri”) che hanno risposto correttamente “circa 15 milioni”, i rimanenti 163 studenti – ovvero l’84 per cento – ritiene che nel mondo gli ebrei siano da 2 a 2,5 miliardi e che, a livello mondiale, “detengano troppo potere”. Ricordo ancora quando, esattamente venti anni fa, somministrai un questionario molto più elaborato e ampio a circa 3.000 studenti. L’elaborazione dei dati fu sconfortante: il 22,8 per cento degli intervistati si era detto convinto che lo Stato d’Israele fosse nato dopo “l’invasione americana dello Stato di Palestina”, il 76 per cento che Israele fosse “grande quanto l’Italia”, il 57,5 per cento che “la lingua ufficiale fosse l’arabo”, mentre per il 48 per cento la capitale era Tel Aviv, ma anche Baghdad, Damasco, Ramallah, Il Cairo. Già allora i termini Israele e Palestina erano adoperati come sinonimi e, per l’89 per cento di quel campione, “lo Stato di Palestina non è mai nato a causa dell’invasione ebraica” della Palestina stessa. Viene da chiedersi se gli studenti di allora non siano diventati gli insegnanti di scuola dei miei studenti universitari di oggi.

 

Tornando al sondaggio attuale, alla richiesta “se suo fratello o sua sorella le dicesse di voler sposare una ragazza o un ragazzo ebreo, cosa direbbe?”, molti hanno scelto di non rispondere (che in fondo è di per sé una risposta), altri hanno confuso la fede con l’etnia scrivendo: “Al giorno d’oggi non dovrebbero esserci differente tra razze ed etnie”, altri ancora – poco più del 40 per cento – hanno detto che “non ci sarebbero problemi”, mentre qualcuno inviterebbe il fratello o la sorella “a valutare bene l’ideologia e non soltanto la religione” e uno studente ha risposto: “Ottimo, così diventiamo ricchi”, dimostrando con quell’unica frase tutti i suoi pregiudizi, magari inconsci.

Se dovessimo basarci su quest’ultima domanda, non potremmo sospettare significativi pregiudizi (tranne in pochi casi): si potrebbe dire che i nostri intervistati “criticano soltanto le politiche del governo d’Israele”. Legittimo! Lo fanno gli stessi israeliani, soprattutto con le scelte politiche di Netanyahu. Vediamo allora di analizzare le conoscenze in merito e, senza pretendere di sottoporre domande troppo articolate, nel questionario ho chiesto: “Ritiene che i governi d’Israele, nel corso di questi ultimi 30 anni, abbiano agito TUTTI contro la possibilità di una pace con i palestinesi?”. Ebbene, l’84 per cento del campione ha risposto affermativamente, fanno eccezione – al solito – gli studenti del gruppo magistrale e pochi altri. In altre parole, ben 165 studenti si sono detti consapevoli delle azioni degli ultimi 30 anni dei governi israeliani e hanno affermato che non ve ne sia stato nemmeno uno che abbia agito per favorire la pace con i palestinesi.

Il castello di carte e di fantasie è tuttavia crollato con l’analisi delle risposte alle due domande successive: sono stati infatti chiesti – rispettivamente – i nomi del primo ministro israeliano precedente a Netanyahu e il nome del leader dell’Autorità Palestinese. Se si possono giudicare le scelte di trent’anni di governi diversi si dovrebbero conoscere almeno i nomi dei principali attori sulla scena politica israelo-palestinese degli ultimissimi anni. Ebbene, su 195 studenti in totale, uno ha risposto Sharon e un altro Abbas. Tutti gli altri hanno scritto: “Non lo so”. 

 

Provocatoriamente il questionario proseguiva chiedendo: “Se Israele venisse cancellato come stato ebraico e diventasse uno stato arabo, ci sarebbe una buona garanzia di pace nel mondo?” In 194 hanno risposto “no”, uno ha scritto “dipende”.  Da cosa però non lo ha spiegato, forse anche in questo caso dipende dal contesto? Ancora più provocatoriamente, la domanda successiva era intesa a suscitare una riflessione: “Se gli ebrei d’Israele venissero cacciati, secondo lei l’Italia dovrebbe attivarsi per accogliere i profughi?”. Ebbene, il 98 per cento ha risposto affermativamente. Due studenti del gruppo hanno tuttavia aggiunto: “Se venissero cacciati da Israele potrebbero comunque restare in Palestina”. La confusione torna a fare capolino. E la prova del fatto che, probabilmente, molti pensano che gli ebrei siano palestinesi e che gli israeliani siano arabi, emerge dall’ultima domanda che chiedeva di descrivere il popolo ebraico con due parole e il popolo palestinese con altre due parole. Tra gli aggettivi e i sostantivi proposti per il popolo ebraico tornano soprattutto: orgoglioso, devoto, sopravvissuti, Shoah, vittime, religioso, antico, oppresso, abile, intellettuale, prigionieri, resistenti, caparbio, resiliente, segnato, sofferente, palestinese. Tra gli aggettivi e i sostantivi proposti per il popolo palestinese: vittime, invadente, spietato, terrorista, perseguitato, oppressi, in collera, spietati, innocenti, bambini poveri, vendicatori, peccaminosi, Talmud.

 

Se confrontiamo queste ultime risposte con le precedenti, ci rendiamo conto che ci troviamo di fronte a giovani che navigano a vista, privi della capacità di trovare informazioni utili a comprendere. Quando, sino allo scorso anno, dedicavo il mio intero insegnamento a Israele, mi sembrava sempre di camminare su un terreno minato: ad ogni lezione rischiavo l’incredulità. Per anni ho sentito il peso di quegli sguardi e per anni sono stata grata del privilegio di poter spingere più di qualcuno alla ricerca. A tratti pareva che volessi convincerli a ritenere la Terra un geoide, mentre a loro faceva piacere continuare a crederla piatta. Tuttavia le risposte ottenute dal gruppo di studenti e studentesse magistrali, che hanno accettato di rispondere al sondaggio, mi hanno permesso di capire che non è stato un lavoro vano: con una preparazione accurata sull’uso delle fonti si scalfiscono pregiudizi e si è più immuni dall’assalto delle fake news.

 

Certo non è un lavoro semplice. Anche il confronto con la carta geografica è da sempre arduo, però si rivela quasi sempre la strada maestra per la conoscenza. Convinti di una immaginaria ampiezza d’Israele, buona parte degli studenti fatica – anche negli elaborati d’esame – a riconoscere lo Stato ebraico e, di fronte a una carta muta, indica l’Iran, l’Egitto, la Giordania, l’Algeria, quando non la Turchia nella convinzione di essere al cospetto del gigante Goliath. La disinformazione e il pregiudizio sono spesso le basi su cui negli anni hanno costruito la loro immagine geografica: così, in un tipico gioco delle parti – ovviamente all’inverso – se uno stato che ha un’estensione territoriale inferiore a quella del Piemonte dovrebbe essere percepito come un piccolo David, nelle menti dei nostri giovani diventa un Goliath equiparato al milione e oltre kmq dell’Egitto.

 

Non diversamente è accaduto negli ultimi esami. Come dicevo, l’insegnamento verteva su diritti umani e sostenibilità. Parlando di etica ebraica e sostenibilità in Israele, avevo introdotto i concetti di Tikkun Olam – ovvero la responsabilità degli esseri umani di mantenere e riparare il mondo – e di Bal Tashchit, il precetto ebraico di non distruggere. Avevo parlato della tradizione ebraica agricola e dell’eco-sionismo, portando ad esempio gli orti biologici e l’edilizia naturale dell’eco-campus del kibbutz Lotan del Negev. Purtroppo i risultati degli esami hanno fornito risposte alquanto bizzarre. Nelle menti di molti studenti Tikkun Olam e Bal Tashchit sono concetti “della teologia islamica” e l’eco-sionismo è “nato per impedire ai palestinesi di sviluppare una solida edilizia urbana, concedendo loro solo case di fango e paglia”.

 

E’ come se qualcosa fosse radicato in loro: una confusione primordiale in cui tutto si mescola. I risultati di tal guazzabuglio vengono messi, nero su bianco, non soltanto come risposte a un sondaggio, ma addirittura come risposte d’esame. Non ci si deve perciò stupire se, tra i fiumi israeliani, negli elaborati d’esame sovente compaiono il Nilo, il Tigri, l’Eufrate. A questo proposito vorrei riflettere sullo slogan “dal fiume al mare” che ha accompagnato e accompagna le manifestazioni in favore di Hamas di questi mesi. La violenza di quell’espressione è evidente, una Palestina dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo) significa la cancellazione di Israele. Non per niente il ministro degli Interni tedesco ha vietato questo slogan, considerandolo non soltanto un sostegno ad Hamas, ma anche un incitamento alla violenza contro gli ebrei e lo Stato d’Israele. Chi lo usa, in Germania, rischia una pena detentiva fino a tre anni. Tuttavia, questo slogan ha una profonda valenza geografica e può farci distinguere il livello di antisemitismo di chi lo grida in piazza, dal livello di semplice confusione. Così, per essere sicura di ottenere risposte valide e non bizzarre, ho inserito questa domanda come momento di riflessione finale per l’aggiunta di eventuale lode all’elaborato d’esame (non penalizzante in alcun modo se errata o lasciata in bianco) e, pertanto, sottoposta ai soli miei studenti: “Dopo aver studiato tematiche relative al Medioriente, quando ha sentito – durante le recenti manifestazioni in favore della Palestina – gli slogan che chiedono una Palestina dal fiume al mare, quali riferimenti geografici pensa volessero indicare?”.

 

Il primo aspetto da rilevare è che, tra gli studenti e le studentesse del corso magistrale che hanno scelto di rispondere, il 100 per cento ha correttamente indicato il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Tra gli studenti e le studentesse dei corsi triennali le risposte sono state le più varie: dal fiume Eufrate al mar Rosso, dal fiume Giordano al mar di Galilea, dal fiume Nilo al mar Caspio, dal fiume Tigri al mar Rosso, dal fiume Nilo al mar Rosso, ma anche dal fiume Alcantara al mar Mediterraneo e dal fiume Tevere al mar Caspio. Riuscite a immaginare quanto sarebbe grande una siffatta Palestina? Il fiume Giordano e il mar Mediterraneo hanno ottenuto soltanto tre scelte. Una geografia alquanto bizzarra.

Sono antisemiti? No, non credo proprio. Quello che è certo è che vivono nella confusione, vittime loro stessi di “cattivi maestri” che – probabilmente loro sì – hanno qualche problema di antisemitismo. Vittime di una scuola che troppe volte è al servizio dell’odio: basta farsi un giro, in questi giorni, sulle chat di qualche gruppo di insegnanti su Facebook. “Idee per la giornata della Shoah?” chiede un docente.  “Oggi come oggi partirei da quel che stanno facendo ai palestinesi, quando la storia non insegna nulla! Non si può parlare di Shoah senza considerare la prepotenza che gli israeliani usano dal lontano 1947 verso i palestinesi”. E anche: “Io quest’anno non commemorerò la Shoah. Parlerò dei bombardamenti di Israele su Gaza, sui civili, sui bambini”. “Considerando quello che stanno facendo gli israeliani ai palestinesi credo che la Shoah gli ebrei l’abbiano dimenticata. Perché dovremmo ricordarla noi?”.  Non una parola sulle atrocità commesse il 7 ottobre da Hamas, come se non fosse accaduto nulla: nessun lancio di razzi, nessuno stupro, nessuna tortura, nessun occhio cavato, nessun seno tagliato, nessun neonato rapito. Niente.

Nie wieder ist jetzt, “mai più è adesso” si dice invece in Germania, dove l’orrore e la vergogna per la Shoah sono ben presenti. “La sicurezza d’Israele è la ragion di Stato tedesca” ha recentemente affermato il vice cancelliere Robert Habeck, ricordando che ognuno di noi può fare qualcosa. E questo nonostante le distorsioni e le omissioni mediatiche, nonostante i social, nonostante Pallywood e le immagini farlocche dell’intelligenza artificiale. Lo dobbiamo fare non soltanto per onorare la memoria, nemmeno soltanto per rendere omaggio al vero, ma anche per rispetto nei confronti delle giovani generazioni: la disinformazione sui banchi di scuola è violenza perché i più giovani, in virtù dell’inesperienza e della fiducia che nutrono nei confronti del corpo docente, non hanno gli strumenti per opporre resistenza critica. I risultati di questo sondaggio e degli ultimi esami sono per me di sprone a moltiplicare gli sforzi nella didattica, nel dialogo, nel coinvolgimento, nella ricerca delle fonti perché mai più è adesso. Se non agiamo adesso, saremo corresponsabili: le dittature si nutrono di ignoranza.

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