Re’im, sud di Israele: due giovani sul luogo del massacro del 7 ottobre al festival musicale (foto Ap/Maya Alleruzzo)  

l'analogia

Il 7 ottobre, un giorno intero di Shoah

Ghila Piattelli

Anche una bambina, per dare voce al trauma che porta dentro di sé da tre mesi, è andata ad attingere l’emblema del male assoluto dall’immaginario collettivo ebraico. L’odio antisemita, la patologia comune a nazismo ed estremismo islamico

Shir, una bambina incontrata in uno degli alberghi dove sono stati trasferiti gli sfollati dei kibbutz del sud d’Israele, mi ha detto: “Il 7 ottobre siamo stati vittime di una Shoah. Soltanto per un giorno, ma è stato un giorno intero di Shoah”. Shir è stata fortunata: la sua casa non è stata data alle fiamme e i suoi genitori non sono stati uccisi, ma per dare voce al trauma che porta dentro di sé da tre mesi, Shir è andata ad attingere dall’immaginario collettivo ebraico, l’emblema del male assoluto. Shir non è stata l’unica a tracciare l’analogia tra la Shoah e il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre contro i civili nel sud d’Israele; lo hanno fatto per primi il presidente Biden e il premier Netanyahu,  poi in Israele anche storici e giornalisti hanno contravvenuto quello che è stato per anni l’imperativo a considerare la Shoah come un evento unico e senza precedenti nella storia del popolo ebraico e dell’umanità intera. 

 

In una lettera aperta, un gruppo di noti storici tra cui Christopher Browning e Omer Bartov, ha dichiarato offensivo e pericoloso l’abuso di ogni riferimento alla Shoah in relazione all’attacco del 7 ottobre. “I paragoni tra la crisi in corso in Israele-Palestina e il nazismo e l’Olocausto – soprattutto quando provengono da leader politici e da altri soggetti in grado di influenzare l’opinione pubblica – sono fallimenti intellettuali e morali”. 

 

L’analogia tra Shoah e 7 ottobre ha scatenato un acceso dibattito che va ben al di là della semantica, ma risponde all’urgente bisogno di creare una narrativa del massacro che sia conforme alla portata dell’evento. La società israeliana ha cercato un modo per comunicare gli orrori commessi dai terroristi preservando la dignità delle vittime e creando allo stesso tempo una memoria collettiva dei fatti. La creazione di un memoriale di emergenza, costituito dai reperti forensi raccolti sui corpi, dalle testimonianze prese a caldo e dai video fatti dagli stessi terroristi in cui gli orrori sono stati trasmessi in tempo reale, è stata la risposta immediata all’urgente bisogno di far sapere al mondo quello che è stato, di creare empatia e comprensione, così da preparare il terreno alla legittimazione in ambito internazionale della campagna militare. Ma non solo. E’ stato anche il modo in cui la società israeliana ha raccontato a sé stessa che cosa è veramente accaduto durante il sabato nero e soprattutto come è potuto accadere. Da questo primo tentativo di darsi delle risposte, è subito emerso, in modo naturale, il parallelismo con la Shoah: le modalità del massacro (stupri, mutilazioni, intere famiglie bruciate vive) la vulnerabilità, l’impotenza e l’abbandono delle vittime, insieme al movente ideologico che si inserisce nella tradizione dell’antisemitismo eliminatorio (lo Statuto di Hamas che rifiuta “qualsiasi alternativa alla piena e completa liberazione della Palestina, dal fiume al mare”, sottintende la distruzione d’Israele) hanno fatto in modo che nazisti e terroristi di Hamas fossero messi per lo meno sullo stesso piano morale. Anche il fatto che la Usc Shoah Foundation di Steven Spielberg abbia iniziato a raccogliere testimonianze dei sopravvissuti, sottolinea come un evento di questa portata attivi la memoria traumatica intergenerazionale e metta in moto meccanismi di difesa collaudati. 
Lo storico israeliano Tom Segev ha affermato che è naturale per gli israeliani stabilire un collegamento tra l’attacco di Hamas e il trauma più profondo radicato nella nazione. “Questo è il male supremo che ogni persona in Israele riconosce”, ha detto. Se si indaga lo stato emotivo degli israeliani all’indomani del più efferato massacro che la storia del paese abbia visto, se si tasta il polso della nazione, risulta chiaro paragonare il 7 ottobre alla Shoah è un po’ come andare a frugare nell’armadio dei rimedi del passato, alla ricerca di un antidoto contro i veleni del presente. Il parallelismo tra i prigionieri di ieri e gli ostaggi di oggi, le baracche di Auschwitz e i tunnel di Gaza, non è una strumentalizzazione della Shoah a scopo propagandistico, ma è un modo per inserire il tassello del massacro del 7 ottobre nel mosaico della Storia, per comprenderlo, metabolizzarlo e per capire come, dopo tutto questo, la società israeliana potrà andare avanti. Non è un caso che il saggio di Viktor Frankl, L’uomo in cerca di senso, che esplora la capacità umana di sopravvivere moralmente in situazioni limite come i campi di sterminio, sia tornato in cima alle classifiche di vendita in questi giorni in Israele. Perché la ricerca di un significato degli eventi è la torcia che illumina l’uscita dal tunnel, chi scopre il perché, spiega Frankl, trova anche il come. Per poter comprendere il massacro del 7 ottobre, la società israeliana ha bisogno e forse anche il dovere di osservarlo attraverso il prisma della Shoah.   

 

Lo slogan Never again is now è stato messo a punto per ribattere ai negazionisti delle atrocità del 7 ottobre e a coloro che hanno definito le violenze comprensibili e in parte giustificabili se inserite nel contesto in cui costituiscono l’unico strumento di cui dispone l’oppresso contro il suo oppressore. Ma allo stesso tempo Never again is now ricorda alla coscienza collettiva che il passato può ripetersi, e che di fronte al massacro più documentato della Storia, la più grande urgenza, dopo quella di testimoniarlo al mondo, è quella di costruire una narrativa corale che gli dia un senso. E questo è possibile solo aggrappandosi al filo rosso che lega le tragedie del passato a quelle del presente, ricorrendo a vecchi rimedi, utilizzando la memoria della Shoah come farmaco off label: perché nazismo ed estremismo islamico hanno in comune la stessa incurabile patologia, l’odio antisemita. Tanto accanimento contro l’inaccuratezza storiografica dell’analogia tra Shoah e 7 ottobre non è privo di motivazioni ideologiche e finalità propagandistiche. E’ vero, gli ebrei di oggi hanno un esercito e uno stato. Questa, però, non deve essere considerata un’attenuante per chi, anche solo per un giorno, ha rapito, sgozzato, decapitato, stuprato e bruciato vivi civili inermi. Ha ragione la piccola Shir, è stato un giorno di Shoah, uno soltanto, perché Israele è in grado di difendersi altrimenti Hamas sarebbe andato avanti, riportando le lancette dell’orologio indietro di ottant’anni, fino alla soluzione finale.

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