Il caso

La Germania contro la demonizzazione culturale d'Israele (e il Nobel la boicotta) 

Giulio Meotti

Nelle istituzioni culturali tedesche non si può indulgere nella retorica antisemita, pena l'allontanamento. I critici parlano di maccartismo e anche Annie  Eranux  firma un appello contro il governo tedesco

 “Molti quartieri in Germania non sono sicuri per gli ebrei”, denuncia Philipp Peyman Engel, il capo redattore del più importante giornale ebraico della  Germania, la Jüdische Allgemeine. “Ciò da cui mia madre è fuggita in Iran ora ci raggiunge in Germania”. In un discorso al Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Claudia Roth – ministro della Cultura – attacca “il silenzio della maggioranza del nostro paese, compresi molti esponenti della scena culturale” in seguito alle atrocità di Hamas. “Qualunque sia la ragione che adduciamo per questo silenzio sul terrorismo di Hamas, non riesco a trovarne una spiegazione”.  


“Dobbiamo prendere una posizione, in modo chiaro e inequivocabile, dobbiamo mostrare solidarietà con Israele e proteggere la vita ebraica nel nostro paese”, dice il ministro tedesco della Cultura, Claudia Roth. Intanto Joe Chialo, suo omologo della capitale tedesca, annuncia una nuova condizione per il finanziamento culturale: gli artisti devono impegnarsi nella lotta contro l’antisemitismo.  In un’intervista alla Berliner Zeitung, Chialo ha  detto: “A diciannove chilometri dal luogo in cui siamo seduti, sul Wannsee, nel gennaio 1942 ebbe luogo la conferenza in cui furono decise le misure per sterminare il popolo ebraico in tutto il mondo”. I critici parlano di maccartismo, il governo risponde che per avere i fondi pubblici non si deve indulgere nella retorica antisemita, compreso paragonare Israele ai nazisti.  


Citando la guerra d’Israele contro Hamas, uno dei più importanti cori tedeschi ha eliminato un grande brano musicale scritto nel XVIII secolo da Händel che contiene la parola “Israele” nel titolo. Il pluripremiato coro Rias, che riceve fondi dal governo, ha annunciato la rimozione dal programma della celebrazione del suo 75esimo anniversario il pezzo “Israele in Egitto”, che fu eseguito per la prima volta da Händel nel 1739 e che fa riferimento alla Bibbia ebraica. “Non riteniamo opportuno mostrare al nostro pubblico questa rappresentazione nel nuovo anno, anche se proviene dall’Antico testamento, data la situazione attuale; la nostra preoccupazione è piuttosto iniziare l’anno con una richiesta di pace”, ha scritto il coro.


Solo nel mondo dell’arte, il Museo Folkwang di Essen ha interrotto una collaborazione con Anaïs Duplan, una curatrice haitiana residente negli Stati Uniti, perché sui social ha descritto l’operazione militare di Israele a Gaza come un “genocidio”. Una settimana dopo, la Biennale für aktuelle Fotografie è stato cancellato dopo che uno dei curatori principali ha paragonato le azioni di Israele a Gaza all’Olocausto.


Fino al caso di Masha Gessen, l’intellettuale russo-americana che ha paragonato la Striscia di Gaza ai ghetti dell’Europa orientale occupata dai nazisti. Gessen l’ha scritto in un saggio  sul New Yorker il 9 dicembre scorso, a cui è seguita una forte protesta alla vigilia della cerimonia del premio Hannah Arendt, assegnatole in Germania, e che si è svolta in sordina. Gessen non ha solo ribadito l’accostamento, ma l’ha spinto oltre avvicinando le rivolte dei ghetti ebraici alla “resistenza palestinese”, dalla quale non è escluso  Hamas e di cui la Cnn ha appena diffuso i video delle decapitazioni dei morti israeliani sui cigli delle strade dei kibbutz. 


“Chère Madame, cosa le è preso?”, titola la Zeit, contro la vincitrice del premio Nobel per la Letteratura, Annie Ernaux, che ha firmato un appello per colpire la Germania. I sostenitori si impegnano a boicottare le “istituzioni culturali tedesche” finché non riconosceranno che la cultura tedesca della memoria dell’Olocausto non è altro che un deplorevole “dogma repressivo”. Nella lista c’è anche lo scrittore palestinese Mohammed El-Kurd, che a Londra lo scorso weekend è stato immortalato mentre invocava la “normalizzazione dei massacri”, in riferimento al 7 ottobre. In realtà Ernaux non è nuova a simili gesti: ha firmato un appello per chiedere il rilascio di Georges Abdallah, il fondatore delle Fazioni armate rivoluzionarie libanesi condannato all’ergastolo per l’assassinio nel 1982 del diplomatico israeliano Yaacov Bar-Simantov davanti alla moglie e alla figlia.


Intanto una pluripremiata scrittrice bosniaca ha tagliato i rapporti con il suo editore tedesco per protestare contro la politica filoisraeliana del governo. Lana Bastašić, vincitrice del Premio Ue per la letteratura 2020, ha rotto con la casa editrice S. Fischer Verlag, citando la sua incapacità di “esprimere la propria voce riguardo al genocidio in corso a Gaza”. Fondata nel 1886 dal pubblicista ebreo Samuel von Fischer, la Fischer Verlag fu costretta all’esilio dal regime nazista nel 1936. 


Dopo il 7 ottobre, non solo Israele, ma neanche la Germania è più la stessa. E anche Jürgen Habermas si è schierato per il diritto all’autodifesa dello stato ebraico dal genocidio di Hamas.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.