il colloquio

Nessun vittimismo, davanti alla Corte la difesa di Israele è decisa

"Credo nella creazione di uno stato palestinese, ma Hamas non vuole un pezzo di terra, vuole distruggere gli ebrei. Non è qualcosa su cui si può cercare un compromesso, come si fa nelle dispute sui confini"

Micol Flammini

Sono cambiate le parole, è cambiata la società, cambierà la politica. Yuval Elbashan racconta come si sta trasformando lo stato ebraico con la guerra in corso e con il processo all'Aia. Spiega le paure per il futuro: sarà un nuovo 1948, ma senza Ben Gurion

Galit Rajuan fa parte della squadra degli avvocati che rappresenta Israele all’Aia. Ha preso la parola davanti ai giudici della Corte internazionale di giustizia, e ha iniziato a elencare tutti i posti civili che Hamas ha trasformato in luoghi di guerra. Scuole, ospedali, moschee, case.  Poco prima di terminare l’esposizione, corredata di prove, Rajuan ha sospirato: “L’elenco è ancora lungo… per l’uso di ospedali come scudi, in violazione di ogni legge umanitaria internazionale, pazienti e personale medico sono in pericolo”. Rajuan ha  parlato  con calma, scandito  i crimini, la sua linea difensiva si basa sulle evidenze. L’Aia è un palcoscenico, sul quale Israele sente non soltanto la responsabilità della difesa, l’isolamento – che ieri si è fatto meno forte con la decisione della Germania di intervenire come parte terza contro l’accusa di genocidio – ma anche la possibilità di esporre al mondo i crimini di Hamas. Non tutti gli israeliani, all’Aia vedono l’ingiustizia: “Capisco il sentimento, ma non sono d’accordo – dice al Foglio Yuval Elbashan, scrittore, avvocato, attivista – Non condivido neppure i paragoni con gli anni Quaranta: noi all’Aia abbiamo una voce. E’ terribile, possiamo definirlo un processo disgustoso, ma adesso noi siamo uno stato, la situazione è molto diversa: non siamo senza difese”. Nessun vittimismo, non c’è tempo, non c’è neppure la voglia di sentirsi vittima nelle parole di  Yuval Elbashan.


La voce di Rajuan e degli altri avvocati sono l’espressione di uno stato che sa e vuole difendersi: “Noi abbiamo contribuito a creare la giustizia internazionale, a definire la convenzione sul genocidio, ebbene, se negli anni Quaranta non esisteva la parola giustizia nel nostro vocabolario, ora sì. All’Aia ci siamo noi. E certo le storture sono tante, basti pensare che ci sarà un giudice libanese o russo o cinese seduto nella Corte, ma non possiamo dire che tutto questo ci ributta indietro nel tempo. Non concordo con i paragoni con la Seconda guerra mondiale, perché c’è una differenza grande e quella differenza siamo noi ”. Yuval Elbashan ha un figlio nell’esercito, si occupa dei riservisti nella sua università, si definisce un uomo di sinistra e quando parla si percepiscono l’orgoglio e il suo peso. “Il mondo simpatizza con chi sembra più debole, per questo abbiamo difficoltà a essere capiti, creduti. Dopo la Seconda guerra mondiale, l’antisemitismo non era scomparso, ma noi sembravamo deboli e si faceva meno fatica a stare dalla nostra parte. Adesso sono così contento che per la prima volta nella storia siamo noi ad apparire forti”. Per Elbashan la forza sta nella capacità di difesa, nella possibilità di avere, come dice lui più volte, “una voce”. 


Sono ormai trascorsi cento giorni di guerra, “per noi continua a essere l’8 ottobre”, dice Elbashan. In questo giorno che dall’attacco di Hamas non è mai finito non ha potuto fare a meno di notare tutti i cambiamenti che il suo paese sta affrontando e che a volte coincidono con i cambiamenti in se stesso. Inizia a parlare del primo cambiamento: “Uso spesso la parola ‘ebreo’, cento giorni fa, per dire la stessa cosa, avrei detto ‘israeliano’. Non credo in Dio, non rispetto lo Shabbat, ma ho capito molto di più dell’identità del mio paese. Prima del 7 ottobre discutevamo della laicità di Israele, adesso il nome di Dio, prima negletto nella sfera pubblica, è tornato”. Su Yedioth Ahronoth, a metà ottobre, Elbashan aveva raccontato di una scoperta personale. Per anni aveva creduto che la sua israelianità fosse definita dal  numero identificativo ricevuto una volta entrato nell’esercito. Passeggiando per Cracovia aveva scoperto, dal racconto di un amico, che lo scrittore austriaco sopravvissuto all’Olocausto, Jean Améry, aveva definito  il numero che i nazisti gli avevano tatuato addosso il metro della sua ebraicità. Di essere ebreo lo aveva scoperto così, con una serie di cifre. Prima, Améry non aveva mai dato troppa importanza alla sua ebraicità. Yuval aveva poi capito quanta poca differenza ci fosse tra una sequenza di numeri e l’altra: “Dobbiamo sempre ricordarci che il numero della morte è impresso sotto la nostra pelle. Hamas non ha iniziato una guerra per il territorio. Io credo nella creazione di uno stato palestinese, se per realizzarlo devo lasciare la mia casa a Gerusalemme, sono pronto a farlo. Ma Hamas non vuole un pezzo di terra, vuole distruggere gli ebrei. Non è qualcosa su cui si può cercare un compromesso, come si fa nelle dispute sui confini”. Il secondo cambiamento sta nell’assopimento delle dispute interne, gli israeliani non si identificano più nella faida fra Tel Aviv e Gerusalemme, tra chi sta con Bibi e chi sta contro, questi estremismi non hanno più voce. Il terzo cambiamento è nella sfiducia: “Le persone non credono più nella leadership politica, dell’intelligence, dell’esercito. Bisognerà cambiare tutto e non soltanto non è semplice, ma può essere spaventoso, perché può generare caos. Non ci sono leader nuovi in attesa, in Israele, chi prende le decisioni  deve essere pronto a fasi critiche, a una maturità che non è semplice da avere, abbiamo visto con l’ex premier Naftali Bennett come è andata. Dobbiamo cambiare tutto senza fermarci”. Quando la guerra finirà, è possibile che chiunque sia stato nel governo, nell’esercito, nell’intelligence sarà ritenuto se non colpevole, almeno responsabile dei fallimenti del 7 ottobre. “Non basterà cambiare Netanyahu, è più complesso. Al suo posto si sta facendo avanti  l’ex capo del Mossad Yossi Cohen, ma è nella stessa situazione”. E’ un nuovo 1948, l’anno dell’istituzione dello stato di Israele. “Dobbiamo ricostruire, rifare. C’è un fatto, però, una differenza grande. Mi guardo attorno, ma un altro David Ben Gurion, io non lo vedo”. 

Di più su questi argomenti:
  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.