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Il racconto

La guerra dei plagi. Il caso Harvard e i pericoli per i giornali

Marco Bardazzi

Le pubblicazioni accademiche sono diventate armi di distruzione reputazionale. Il caos culturale intrecciato ai finanziatori delle università e l’argine che si è rotto: i giornalisti sono avvisati

C’è un verbo nella lingua inglese americanizzata che un tempo veniva utilizzato quasi esclusivamente dai militari, poi dai servizi d’intelligence, quindi dalla politica: to weaponize, cioè usare o trasformare qualcosa in un’arma, weapon. Dopo l’11 settembre 2001, imperversava nei rapporti della Cia o dell’Fbi. Al Qaida aveva trovato il modo di usare gli aerei civili come armi e c’era il timore che riuscisse a fare lo stesso con batteri e sostanze chimiche o radioattive. Negli anni del Covid, l’accusa è diventata quella di usare i virus come arma. E adesso, nell’èra della polarizzazione politica estrema, si è cominciato a “weaponizzare” tutto ciò che può essere usato contro i rivali ideologici. In questi primi giorni del 2024, per esempio, anche le pubblicazioni accademiche sono diventate armi di distruzione reputazionale. 


Nei campus  americani è scoppiata la “guerra del plagio” e c’è da aspettarsi che prosegua a lungo. La vittima più eccellente che ha fatto finora è la presidente di Harvard (un titolo che equivale al nostro rettore), Claudine Gay, che sei mesi fa era diventata la prima afroamericana e la seconda donna ad assumere la guida di uno degli atenei più celebri del mondo. Ma non sarà l’ultima a cadere, perché l’accusa di aver copiato qualcosa in tesi di dottorato, paper accademici e pubblicazioni varie – complici i software antiplagio sempre più avanzati e l’intelligenza artificiale – adesso comincia a venir lanciata contro tutto e tutti. Oltre che a esplodere in mano anche a chi la sta usando contro gli altri. È uno scenario caotico, che in questi giorni ha come protagonista (ben presto diventato vittima) il finanziere miliardario attivista Bill Ackman. Ma è stato innescato dalle reazioni che ha avuto nei campus l’attacco di Hamas a Israele del 7 ottobre. 


Andiamo con ordine, per capire i tre mesi bizzarri che hanno appena vissuto alcune delle più celebri istituzioni universitarie americane, dove si sta verificando un corto circuito in buona parte conseguenza di anni di guerre culturali che hanno ormai confuso anche chi le promuove. Dopo la carneficina di Hamas e in concomitanza con le prime operazioni di Israele per dare la caccia ai terroristi a Gaza, nei campus degli Stati Uniti si sono susseguite manifestazioni filopalestinesi, ondate di protesta contro la posizione dell’Amministrazione Biden (che hanno spaccato anche il Partito democratico) e veri e propri episodi di antisemitismo ai danni di studenti e professori ebrei. Un clima di tensione che i vertici delle più importanti istituzioni accademiche americane non hanno saputo – o voluto, secondo i loro critici – gestire nella maniera corretta e super partes.  Come spesso succede negli Stati Uniti, la vicenda è diventata in fretta un caos culturale intrecciato a una questione di soldi. I presidenti delle grandi università delle Ivy League sono nello stesso tempo garanti del livello accademico delle loro istituzioni, ma anche in pratica amministratori delegati. La dotazione finanziaria di cui dispongono i loro atenei ha dimensioni enormi. Harvard, la più ricca delle università americane, siede su un patrimonio di donazioni e rette che nel 2023 è stato superiore ai 50 miliardi di dollari. Yale viaggia sui 42 miliardi, il MIT (Massachusetts Institute of Technology) ha in pancia 27 miliardi. 

I rettori devono essere abili fundraisers e ovviamente devono tenere buoni i filantropi e finanziatori che tengono in piedi istituzioni così complesse. E qui entra in scena Ackman. Cinquantasette anni, fondatore del hedge fund Pershing Square Capital, con un patrimonio personale stimato in 3,8 miliardi di dollari, Ackman è un benefattore di Harvard, l’università dove ha studiato e alla quale ha fatto nel corso del tempo generose donazioni: la più grossa, nel 2014, è stata di 25 milioni di dollari. Ma Ackman è anche un finanziere attivista, uno che entra nei Cda e li fa saltare, talvolta rimettendoci anche somme enormi (anni fa fece una dura battaglia contro Herbalife, sostenendo che i suoi integratori alimentari erano una frode, e perse un miliardo di dollari). E’ uno che si muove in fretta e con efficacia sui social, con 1,1 milioni di follower su X, dove duetta spesso con Elon Musk. Ed è un ebreo praticante, per niente contento di quello che ha visto accadere nei campus americani dopo il 7 ottobre e ancora meno disposto a lasciar correre.  Ackman nei mesi scorsi è entrato in rotta di collisione con Claudine Gay, facendosi portavoce del malcontento di molti finanziatori di Harvard per quella che in tanti hanno percepito come un’assenza di prese di posizione chiare sulla questione di Hamas e sull’antisemitismo nei campus. I suoi tweet sono diventati sempre più lunghi e aggressivi, ma soprattutto hanno allargato il tema della discussione. Con lucidità e precisione – come i lettori del Foglio sanno, per aver letto su queste pagine nei giorni scorsi un lungo intervento di Ackman – il finanziere ha cominciato a denunciare un problema più vasto. Se la presidente Gay, come altri rettori, fatica a trovare le parole giuste per condannare Hamas in modo chiaro e netto, è per colpa di un clima intellettuale che sta intossicando gli ambienti accademici. È quello che da destra viene riduttivamente riassunto con l’etichetta “woke”, che è a sua volta un corto circuito culturale, visto che in origine si trattava di una parola dello slang afroamericano che inneggiava alla libertà di espressione e alla lotta al potere dominante.


Passando del tempo nel campus di Harvard, ha raccontato Ackman, “ho concluso che l’antisemitismo non era il fulcro del problema, ma semplicemente un segnale d’allarme  preoccupante, nonostante il suo impatto distruttivo sulla vita studentesca e sull’apprendimento nel campus. Ho scoperto che  la causa principale  dell’antisemitismo a Harvard – ha twittato il finanziere – era un’ideologia che era stata promulgata nel campus,  un quadro di oppressori/oppressi, che forniva il baluardo intellettuale dietro le proteste, contribuendo a generare discorsi di odio e molestie anti israeliane e anti ebraiche”.  Il dibattito si è quindi allargato alla cancel culture americana e agli eccessi che starebbe portando, a detta di Ackman, la cultura Dei (diversità, equità ed inclusione). E ben presto la Gay è diventata un bersaglio per la rapidità della sua carriera e per essere diventata rettrice arrivando da studi in Scienze politiche non certo stellari per gli standard di Harvard. Il fatto che sia donna e nera ha legittimato l’interrogativo: non sarà per caso arrivata lì grazie alle scorciatoie della cultura Dei? Accuse che potrebbero sembrare politicamente motivate e conservatrici, se non fosse che Ackman ha una lunga storia come finanziatore del partito di Biden ed è più vicino culturalmente ai democratici che a Trump.

Il dibattito imperversava già su questo terreno quando la Gay, insieme alla presidente dell’Università della Pennsylvania Elizabeth Magill e a quella del MIT Sally Kornbluth, ha scatenato un putiferio in una audizione in Congresso a metà dicembre. Tutte e tre, con modalità diverse e ricorrendo a formalismi legali, hanno evaso la risposta a una domanda semplice e chiara: occorrono o no azioni disciplinari da parte delle istituzioni accademiche nei confronti di studenti che inneggiano al genocidio degli ebrei? La Magill è stata la prima a dimettersi sulla scia di quell’audizione. Claudine Gay ha resistito qualche settimana, tempestata dagli attacchi di Ackman e di un numero crescente di critici, tra cui molti donatori di Harvard. Ma poi il dibattito si è spostato ancora, non appena è comparsa un’altra weapon da inserire nello scontro: il plagio. 
Le pubblicazioni accademiche della Gay sono state passate al setaccio andando indietro nel tempo fino agli anni Novanta e su alcune testate giornalistiche conservatrici come il “Washington Free Beacon” sono cominciate a uscire accuse alla presidente di Harvard di aver copiato ampi brani, violando le regole sulla citazione delle fonti. I grandi giornali come il “New York Times” e il “Washington Post” per un po’ hanno cercato di ignorare la cosa, forti di una iniziale difesa della rettrice da parte del board di Harvard. Ma ben presto la documentazione è diventata troppo vasta, le testate maggiori non hanno più potuto ignorarla e Claudine Gay si è arresa, presentando le dimissioni, pur continuando a sostenere che i presunti plagi sarebbero in realtà episodi marginali.  Ackman ha esultato, ma è durata poco. Perché nei giorni scorsi l’arma del plagio l’ha impugnata qualche suo avversario, che ha fatto uscire accuse in questo senso contro la moglie del finanziere, Neri Oxman. Che non è un personaggio da meno del marito. La Oxman, una israeliana trapiantata negli Stati Uniti, è da anni una star del mondo scientifico. Il suo Media Lab al MIT è un luogo di sperimentazione dove si fondono biologia, architettura e design. Le sue ricerche sono opere d’arte, al punto da essere finite al MoMA e da lì nel 2019 anche alla Triennale di Milano, dove la portò la curatrice del MoMA Paola Antonelli. 


Adesso Oxman si deve difendere dalle stesse accuse che hanno fatto cadere Claudine Gay e che possono mettere in difficoltà probabilmente mezzo mondo accademico americano, ora che l’intelligenza artificiale, per nutrire strumenti come ChatGPT, sta “leggendo” tutto ciò che è stato scritto anche in anni in cui i controlli erano solo manuali, mentre nuovi software sempre più sofisticati fanno emergere ogni possibile sospetto di copiatura. Ackman, furibondo, da giorni tuona su X contro questo attacco alla moglie, ritenendolo un’azione antisemita, viste le origini di Oxman, e promettendo che userà tutti i suoi mezzi per andare a caccia di plagio contro le due realtà che è convinto siano dietro l’attacco. Una è il MIT, l’ateneo della Oxman, e in particolare la sua presidente Kornbluth, unica sopravvissuta per ora all’audizione in Congresso. L’altro obiettivo di Ackman sono “Business Insider”, la testata che ha lanciato le accuse contro sua moglie, tutto il gruppo Axel Springer che la controlla e il fondo KKR che a sua volta controlla il colosso tedesco dei media. 
La “guerra del plagio” è solo agli inizi.  

 

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