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Il dilemma woke è Israele ed è qui che si gioca la base della cultura occidentale

Giovanni Maddalena

La questione ebraica è la questione per eccellenza dell’occidente e l’ideologia non poteva che andare a naufragare proprio su questo punto

Il caso delle tre presidenti di Harvard (che lunedì si è dimessa), Mit e Penn University che non riescono a dire al Congresso se invocare il genocidio degli ebrei sia permesso o meno nelle loro università mostra il dilemma della cultura woke, che non a caso è Israele. Per quanto sembri strano, sulla vicenda di Israele si gioca infatti il fondamento della cultura occidentale post Seconda guerra mondiale ed è una battaglia che avviene necessariamente negli Stati Uniti.


Ma cerchiamo di spiegare. La cultura woke americana parte dal tentativo di conciliare la giustizia sociale con l’assoluta autodeterminazione del mondo liberale capitalista. Ciascuno può dire o fare quel che vuole ma ciò crea inevitabilmente disparità e mette in luce che già in partenza ci sono diseguaglianze di condizioni. Di conseguenza, bisogna cercare di equilibrare le differenze nei risultati e, meglio ancora, se si riesce, di eliminarle all’origine e di cancellarne le tracce storiche. Da qui la cancel culture che abbatte statue e cambia nomi; la mania dei pronomi negli Stati Uniti e quella di asterischi, schwa, desinenze nuove nelle altre lingue; le affermative actions che creano posti di lavoro riservati alle minoranze svantaggiate. Negli Stati Uniti si chiama la DEI policy, diversity-equality-inclusion, ed è stata la pratica di riferimento dell’intero sistema educativo per più di un decennio.

Le cose vanno avanti, sebbene con mille contraddizioni, fino a quando non ci si imbatte nel conflitto Israele-Hamas. Qui tutto entra in cortocircuito. Il caso di attacco terroristico è eclatante ma la reazione israeliana, non proporzionata nei canoni occidentali, fa scattare la DEI come ideologia. Bisogna allora schierarsi con i palestinesi perché sono in condizioni di svantaggio. Anzi, sarebbe meglio eliminare direttamente gli avvantaggiati, con una specie di affermative action universale. Quindi via a cortei e occupazioni pro Hamas delle università di élite americane e alla discriminazione degli ebrei. Nelle università americane gli studenti ebrei hanno ora paura ad andare in giro con la kippah nei campus e qualche negoziante ebrea dei civilissimi sobborghi bostoniani si è sentita minacciare. Ed ecco che però qui le cose si inceppano: le élite colte americane sono diventate antisemite? Dopo le dichiarazioni incerte delle tre presidenti, in effetti la protesta degli stessi liberal americani, spesso educati ad Harvard e simili, si scatena sui social e nella vita reale. I donors ebrei fuggono, la presidente di Penn si dimette, quella di Harvard resiste fra le accuse continue salvo poi lasciare pure lei. Il mondo liberal si risveglia e lotta contro sé stesso, decine di articoli su molti giornali denunciano la DEI policy dopo un decennio di assoluto torpore.


Già, perché la questione ebraica è la questione per eccellenza dell’occidente e l’ideologia non poteva che andare a naufragare proprio su questo punto. Lasciando perdere il problema antico, la relazione più che da fratelli maggiori con il cristianesimo e la lunga storia medievale e moderna di inclusione/esclusione, la questione ebraica è l’unico mito fondativo dell’ordine occidentale dopo la Seconda guerra mondiale. L’occidente è costruito sul non ripetere mai più i campi di sterminio nazisti, inaspettato frutto marcio di una cultura che si pensava perfetta e che aveva prodotto Kant e Beethoven. Le istituzioni politiche hanno bisogno sempre di miti fondativi per resistere. È il loro collante. Il “mai più la guerra” dei tre fondatori dell’Europa è un sottoprodotto del “mai più l’Olocausto” che è l’unico motivo condiviso in occidente per accettare le ingiustizie sociali del capitalismo, l’imperfezione e la lentezza delle democrazie liberali, l’incombente controllo della società delle comunicazioni. Tutto può essere accettato se, e solo se, permette di non ripetere l’orrore della Shoah. Israele è l’emblema di questa volontà, del non volere piombare mai più nel secolo cane-lupo, nell’odio per ciò che un altro essere umano è e non per quello che fa o dice, nell’uso spietato della tecnica per la soppressione di nostri simili.


È anche questo un problema di giustizia sociale. Abbiamo deciso di non voler essere più ingiusti in quel modo, uno dei più atroci pensati dall’essere umano. Solo dopo abbiamo scoperto ciò che facevano i comunisti sovietici e cinesi e, per quanto peggiori, le loro stragi non sono il nostro mito fondativo. La Shoah sì. Ora, che in nome della giustizia sociale si attacchino di nuovo gli ebrei, che abbiamo difeso come emblema della giustizia sociale, è paradossale. Ma qui vanno a finire le strade della storia, che si incontrano al crocevia della questione ebraica. Decidere di continuare a considerarla il nostro mito fondativo vuol dire continuare a vivere nell’ordine post Seconda guerra mondiale. Rimuoverla significa passare all’incertezza di un terreno totalmente sconosciuto. E qui, al netto di tutti gli errori e i comprensibili motivi di tutti gli attori in causa, che si gioca la strada del futuro degli Stati Uniti e nostro.
 

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