Studenti pro palestina della New York University in corteo a Washington Square Park il 16/11/2023 (Andrew Lichtenstein/Corbis via Getty Images) 

nel punto cieco della libertà

L'antisemitismo nei campus e il picco della cancel culture. Intervista a Greg Lukianoff

Giulio Silvano

Quali sono le eccezioni al free speech? Dati alla mano, il presidente di Fire (Foundation for Individual Rights and Expression) ci spiega l’ipocrisia delle università americane, il picco forse raggiunto della cancel culture nelle accademie e il nuovo rischio: i giovani professori

“Ormai è molto chiaro che c’è un problema di antisemitismo nell’istruzione universitaria, concentrato in particolare nelle scuole d’élite”, dice al Foglio il giornalista e avvocato Greg Lukianoff. Da tempo Lukianoff, presidente di Fire (Foundation for Individual Rights and Expression), si occupa di libertà di espressione, di cancel culture e del declino delle università statunitensi. Più di dieci anni fa ha scritto il libro “Unlearning Liberty: Campus Censorship and the End of American Debate”, dove analizza l’erosione della libertà di parola e di pensiero nelle più prestigiose università americane, nelle quali oggi si grida “Intifada”. 

 
A Washington, all’inizio di dicembre le presidentesse di Harvard, dell’Università della Pennsylvania e del Mit, tutte Ivy League, si sono trovate a parlare davanti a una commissione della Camera. Dopo i numerosi casi di antisemitismo che ci sono stati nei campus in seguito all’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, la domanda rivolta dai deputati era semplice: invocare il genocidio degli ebrei vìola il codice di condotta interno all’università? Le presidentesse hanno titubato. La risposta evasiva, “dipende”, data da Liz Magill di Penn ha portato alle sue dimissioni, dopo che vari donatori dell’università hanno minacciato di chiudere il portafogli. La presidente di Harvard, Claudine Gay, rischia anche lei il posto.

   
Questo ha aperto un dibattito sul free speech, e su come la cultura degli ultimi decenni abbia portato a difendere la libertà di espressione quando si parla di distruggere Israele. 

   
Questo quando per anni in questi stessi campus si è combattuto per zittire altri punti di vista, tra safe spaces, trigger e comicità considerata troppo offensiva (“Non vado a fare show nei campus”, diceva Jerry Seinfeld, “ai ragazzi piace solo dire ‘questo è razzista, questo è sessista, questo è un pregiudizio’”). 

  
“Questa è stata l’ipocrisia più abbagliante mostrata dalle audizioni al Congresso”, dice al Foglio Lukianoff. “La gente ha assolutamente ragione a criticare i doppi standard che gli amministratori delle università sembrano applicare quando si parla di linguaggio offensivo nei confronti di studenti ebrei, rispetto a quando si parla invece di linguaggio offensivo nei confronti di altri gruppi. E’ difficile immaginare che Magill e Gay sarebbero state altrettanto puntigliose o avrebbero detto che dipende dal contesto se fossero state chiamate davanti al Congresso per discutere di accuse riguardanti un ambiente ostile nel campus nei confronti, per esempio, di studenti neri o Lgbt. Però, la soluzione è comunque non censurare mai”. Magill davanti alla Camera ha detto che “da sole le parole, non possono essere punite”, un richiamo al Primo emendamento della Costituzione che sancisce la libertà di pensiero e di parola. Ma, dice Lukianoff, “ci sono delle dichiarazioni che non sono protette da questo emendamento, e per ottimi motivi. Però queste eccezioni sono limitate ed esigue, e l’asticella è molto alta per i precedenti legali esistenti, anche questo per buoni motivi. Le eccezioni al Primo emendamento includono incitamento alla violenza imminente e illecita, effettive minacce, provocazioni di un certo livello, calunnie e diffamazioni. La molestia, invece, non viene definita come qualcosa di verbale, ma come un modello comportamentale. La testimonianza di Magill e di Gay sarà anche stata goffa, ma nell’insistere sulla necessità di stabilire un contesto per valutare se gli incidenti individuali abbiano violato le rispettive politiche scolastiche, sono state perlopiù corrette.

 

Per esempio, non tutti interpretano il famigerato slogan “From the river to the sea, Palestine will be free” o l’invocazione della parola araba per insurrezione, “intifada”, come un invito esplicito al genocidio. E, ancora più importante, anche gli espliciti inviti al genocidio, per quanto si possano trovare ripugnanti, sono protetti dal Primo emendamento fino a che non superano gli standard molto alti di cui abbiamo parlato”. Il Primo emendamento, che garantisce anche la libertà di religione e di stampa, fu adottato nel 1791 e da allora è diventato parte del dna americano. 

 
Ma di fronte alla commissione del Congresso, Magill e Gay sembravano spaventate a esprimere la propria opinione, come se su certi temi non potessero dire quello che davvero pensano.  “Probabilmente erano spinte dalla paura, paura del corpo docenti, degli studenti e dell’amministrazione. Il nostro database, Scholars Under Fire, monitora i tentativi che sono stati fatti per sanzionare pubblicamente gli accademici per motivi di espressione, insegnamento o ricerca, che dovrebbero essere protetti dalla legge americana – in breve possiamo dire che monitoriamo i tentativi di cancellare gli accademici. Tra gli oltre 1.200 tentativi che abbiamo registrato dal 2000, circa tre quarti erano interni, provenivano almeno in parte da studenti, da membri dal corpo docente, dall’amministrazione. Se ci concentriamo su questi tentativi di sanzione provenienti da gruppi interni al campus, il Mit ne aveva due, mentre Penn e Harvard ne avevano ognuna più di una dozzina”. E infatti, tra le tre, la presidente del Mit è quella che ne uscita meglio, sia nel ranking sulla libertà di espressione – altra ricerca annuale di Fire – sia nelle audizioni congressuali. Nella classifica sulla libertà di pensiero nelle università dell’ultimo anno, Harvard e UPenn erano in fondo alla lista. “Come in ogni altra organizzazione, le persone che arrivano a coprire ruoli chiave amministrativi nelle università sono solitamente consci delle dinamiche politiche interne. E quindi, dopo il 7 ottobre, molti presidenti pro Israele avevano paura di esprimersi, o lo facevano in modo attenuato, perché sapevano bene quali erano i rischi. E poi, quando è arrivato il momento di difendere le loro stesse politiche sulla libertà di espressione, è stato chiaro che non erano abituati a farlo”.


In “Unlearning Liberty”, Lukianoff parlava di come l’istruzione universitaria ha smesso di insegnare agli studenti a diventare dei pensatori critici. L’antisemitismo esplicitato e la difesa di Hamas sono anche un risultato di questo processo? “Sì, ho paura che quello che stiamo vedendo sia l’evoluzione inevitabile di un trend nell’istruzione universitaria di cui parlo in quel libro, e anche in ‘Freedom from Speech’. Simile ad altre ortodossie da campus, il punto cieco e l’ipocrisia riguardanti l’antisemitismo – soprattutto quando è messo in comparazione con la fragilità che circonda altre comunità – sembrano proprio essere un sintomo del più profondo groupthink, il pensiero di gruppo, unico, che ha caratterizzato la cultura in troppi campus americani”. Nel libro uscito quest’anno, e scritto insieme a Rikki Schlot, “The Coddling of the American Mind”, Lukianoff mostra come le buone intenzioni nate dalla richiesta di maggiore rispetto e considerazione degli altri, in particolare delle minoranze, abbia portato al diktat di non dover offendere nessuno, al concetto del safe space, e ha prodotto una generazione fragile e intollerante. Dalla fatphobia ad Hamas è un attimo. 


Lukianoff vuole sottolineare che Fire è un’organizzazione super partes e apartitica. E infatti rispetto al dibattito sul wokismo diventato centrale nelle campagne elettorali, ha preso posizioni che hanno sempre come obiettivo la libertà di espressione e che colpiscono a destra e a sinistra. Fire ha denunciato in tribunale la Stop Woke Act, legge che vietava corsi contro i pregiudizi fatti nelle aziende, voluta dal governatore della Florida Ron DeSantis, che ha fatto dell’antiwokismo il cuore della sua (fallimentare) campagna elettorale per la presidenza. Ma allo stesso tempo Fire ha combattuto contro un gruppo californiano di università che “forzava i professori a insegnare ‘diversità, equità e inclusione’ anche in corsi come chimica”. 


Ci si chiede se siamo arrivati a un picco. “Secondo i dati analizzati da Fire, i peggiori anni per la libertà di espressione e di parola sono stati di gran lunga il 2020 e il 2021. Rispetto ai 1.200 accademici presi di mira di cui parlavamo, circa un terzo è stato attaccato in questi due anni. Sono stati i due anni in cui si sono verificati più casi fino ad ora, un aumento del 50 per cento rispetto a quelli precedenti. Le elezioni del 2020, l’omicidio di George Floyd, le tensioni riguardanti le misure di sanità pubblica in pandemia hanno aperto nuove ferite e allo stesso tempo hanno dato nuova energia a quelle vecchie. E da allora il trend è un po’ rallentato, ma non è tornato alla normalità di un tempo. Mentre ci sono alcuni indicatori che vengono interpretati come il raggiungimento del ‘picco del woke’, c’è un motivo per cui dico che la libertà di parola è ‘l’idea eternamente radicale’: perché il desiderio di censurare e l’impulso a restringere i confini dei discorsi accettabili è la norma, è istinto umano. E in ogni generazione ci saranno persone che insorgeranno per opporsi alla libertà di parola. Che venga da parte degli studenti universitari di estrema sinistra o da parte dei legislatori repubblicani, ci sarà sempre qualcuno che vuole cancellare o squalificare i suoi oppositori ideologici invece che dialogare e persuaderli”. 


Secondo Lukianoff l’ultimo decennio in cui abbiamo visto un cambio di cultura ha avuto un impatto di cui sentiremo ancora gli effetti, anche perché “le nuove generazioni di professori sono preoccupanti. Sono ancora più politicamente omogenei e ancora più ostili alla libertà di parola e alla libertà accademica, almeno secondo i sondaggi”. Secondo il rilievo fatto da Fire sul 2022, metà del corpo docenti universitario si dichiara progressista, “e sotto i 35 anni si arriva al 60 per cento. Per i docenti sopra i 55 anni, sei su dieci pensano che non sia mai permesso zittire un relatore. Tra i docenti sotto i 35 la pensano così soltanto quattro su dieci. I problemi nei campus universitari non spariranno così, da un giorno all’altro”. 

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