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Acque pericolose

Tutti i problemi della Marina italiana contro i droni iraniani

Luca Gambardella

Dall'arsenale missilistico alle contromisure elettroniche: ecco i limiti della missione della fregata Virginio Fasan per reagire in modo proporzionato agli attacchi degli houthi nel tratto di mare che collega il Mediterraneo all’Asia

Qualche decina di miglia a sud-est del porto yemenita di Aden, la fregata della Marina Militare Virginio Fasan scorta tre cargo italiani, due della D’Amico Shipping Group e uno della Prysmian. Dalla costa, i ribelli di Ansar Allah seguono con i propri radar la rotta delle navi. Quel tratto di mare che collega il Mediterraneo all’Asia, strategico per i commerci del mondo intero, da mesi è sotto la minaccia dei droni che l’Iran ha fornito agli houthi dello Yemen. Lo scorso dicembre, il governo italiano ha deciso di fare la sua parte per garantire la sicurezza della navigazione e ha inviato il Fasan. La scorta delle tre navi, pochi giorni dopo Capodanno, è stata una delle prime missioni della nostra fregata.  Ma nuovi elementi sollevano dubbi sulla capacità delle navi della Marina Militare italiana nell’impiego di contromisure idonee contro i droni iraniani. In particolare, rivelano al Foglio fonti della Forza armata, gli armamenti e gli strumenti di guerra elettronica non sarebbero calibrati per reagire in modo proporzionato.

“La Marina italiana è abituata a operare nel Mediterraneo, dove i droni sono molto pochi. Fuori da lì però ci ritroviamo davanti a minacce per noi abbastanza nuove”, spiega un ufficiale. Non esiste solamente il problema del limitato arsenale missilistico. Come rivelato dal Foglio la scorsa settimana, il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha confidato in commissione che la nostra Marina dispone attualmente di appena 63 missili. Il ministro, a distanza di oltre 24 ore, ha poi smentito le sue parole, nonostante diversi parlamentari fossero testimoni della sua affermazione. “Ma il problema c’è ed è grave – confermano dalla Marina – Capita persino che le navi debbano scambiarsi i missili, per quanto le scorte siano ridotte”. Il riferimento è al Teseo Mk2/A imbarcato a bordo delle Fremm. Ma alla carenza di questo sistema d’arma, finora abbiamo sopperito con un altri missili, gli Aster 15 e 30, più performanti ma con un limite evidente: “Ognuno costa oltre un milione di euro. Usarli per abbattere un drone iraniano, che costa poche migliaia di euro, significa sparare colpi di bazooka per uccidere delle mosche”, spiegano dalla Marina.  Due settimane fa, l’americana USS Carney aveva neutralizzato fino a 14 Uav degli uomini di Ansar Allah in un solo attacco. È questa la sfida che si ritrovano davanti le navi militari nell’area: riuscire a rispondere a sciami di droni suicidi. Negli ultimi quattro anni, queste armi di piccole dimensioni, come gli Shahed 136 e gli Arash-2, in grado di infliggere danni seri alle navi colpite, hanno preso il sopravvento. “Soprattutto nello Stretto di Hormuz e nel Mar Rosso i droni iraniani ci volano addosso di continuo. Sono tantissimi”, spiega un altro ufficiale della Marina Militare italiana sentito dal Foglio e con una lunga esperienza di navigazione nell’area.

Gli strumenti di dissuasione impiegati dalle nostre unità vanno dai semplici warning all’impiego delle armi. Oltre ai missili, una soluzione più economica ed efficace è il cannone da 76 mm. “È un’arma moderna ed efficace, ma ha due inconvenienti – spiegano al Foglio – Il primo è che ha gittata ridotta rispetto ai missili, quindi il drone è neutralizzato molto più vicino alla nave. Il secondo è che, se usata a ridosso di mercantili per difenderli, i proiettili vaganti rischiano di colpirli”. Da anni  questi limiti sono fatti presenti in rapporti dettagliati sottoposti al Covi, il Comitato operativo di vertice interforze, comandato dal generale Francesco Paolo Figliuolo. “Finora senza esito. Non sappiamo cosa ne sia stato di questi rapporti”. La soluzione intermedia sono le contromisure elettroniche.

La Virginio Fasan, come tutte le Fremm, è dotata di dispositivi di jamming. Si tratta di un sistema che emette onde elettromagnetiche in grado di agganciare le frequenze dell’arma nemica, disturbandole. La Fasan imbarca il sistema Nettuno 4100, ma anche in questo caso i piccoli droni si dimostrano un’arma difficile da individuare con i sistemi attuali. “Il jammer agisce in base a un database di frequenze delle unità nemiche. I droni iraniani sono molto piccoli, difficili da individuare. E per noi sono mezzi nemici abbastanza nuovi, usano frequenze che non tutti i nostri sistemi sono in grado di riconoscere”. Questo problema sussiste per i pattugliatori di altura come il Thaon de Revel, che fino allo scorso anno era attivo in missione proprio nel Golfo di Aden. I media italiani hanno scritto che la Fasan oggi sarebbe dotata di un sistema di bomb jamming – come tutte le principali navi italiane, del resto – ma non è noto se sia specifico per intercettare i droni.

Si sa invece che gli americani e i francesi, tra i più attivi nell’area, si sono dotati da tempo di apparecchiature ad hoc per la guerra elettronica contro gli Uav. I Burke degli Stati Uniti hanno un sistema moderno come il Sewip Block-3, un disturbatore che emette segnali mirati contro i droni. E le Fremm della Marina francese hanno già iniziato dallo scorso anno ad addestrarsi alla guerra anti Uav anche usando i fucili anti drone, delle armi che emettono onde elettromagnetiche. Costano poche migliaia di dollari e sono state date in dotazione anche agli ucraini per difendersi dagli Uav russi. Non si ha notizia, invece, del loro impiego a bordo delle unità della nostra Marina Militare, al momento. Infine, ci sono le regole di ingaggio, nel caso italiano molto stringenti. “Interveniamo con le armi, generalmente, solo in casi limite, quando c’è un pericolo imminente e diretto alla nostra incolumità”, spiegano dalla Forza armata. “Non è un caso se, finora, non abbiamo mai abbattuto nemmeno un drone”. A differenza di americani e francesi.
 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.