Nixon e Mao - foto Ansa

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Brindisi di pace: storia di diplomazia gastronomica

Siegmund Ginzberg

Un bicchiere dopo l’altro e anche Nixon e Mao si strinsero la mano. Come maotai e vodka hanno propiziato intese quasi impossibili

"E chi non beve con me peste lo colga!". Proverbiale la battuta che La cena delle beffe di Alessandro Blasetti (1942) affida alla voce calda e possente di Amedeo Nazzari. Nella storia, ambientata da Sem Benelli (nel 1906) nella Firenze di Lorenzo de’ Medici, una beffa sanguinosa sfocia in un massacro ancora più sanguinoso. Molto più spesso invece il brindisi è un modo per iniziare, o suggellare, un processo di pace tra nemici irriducibili. 

America e Cina erano ai ferri corti, sembravano irreconciliabili, si scambiavano accuse di malvagità e atrocità reciproche, quando nel freddo inverno di Pechino del febbraio 1972 l’allora presidente Usa Nixon celebrò con un brindisi l’inizio della riconciliazione con l’arcinemico Mao e l’allora primo ministro cinese Zhou Enlai. Nixon la definì come “la settimana che ha cambiato il mondo”. Era ancora in corso, anzi nel pieno, la guerra in Vietnam, con tutti i suoi massacri, i labirinti di tunnel, i bombardamenti a tappeto e quant’altro. Venti di guerra soffiavano forti nel resto dell’Asia e in medio oriente. Eppure, sotto gli occhi stupiti del mondo intero si verificò l’impossibile. 

Altri brindisi, a Mosca, al Cremlino, nel maggio del 1972 suggellarono l’affermazione americana che il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina non era un segnale di accerchiamento dell’Unione sovietica. Tra le guerre in agguato, la più probabile in quel momento era un conflitto, forse addirittura nucleare, tra Unione sovietica e Cina. A Mosca erano terrorizzati dalla possibilità di un’intesa Usa-Cina a loro danno. Era evidente che la normalizzazione sino-americana era una scelta strategica contro il terzo grande assente, l’Urss. Rassicurarli, tranquillizzarli fu un capolavoro della diplomazia americana. “Siamo stati a bere mao-tai a Pechino e poi pure vodka a Mosca”, fu il modo in cui l’avrebbero messa. Era la prima visita di un presidente Usa nella capitale sovietica sin dall’inizio della Guerra fredda. Non era la prima visita di Nixon, che c’era già stato, da vicepresidente di Eisenhower, nel luglio del 1959, per inaugurare l’Esposizione nazionale americana Parco Sokolniki. Fu lì che Nixon e Kruscev ebbero il celebre scambio di battute di fronte a un modello di cucina americana, concentrato simbolico di benessere americano. Nel 1972 a brindare con Nixon c’era Breznev. Lo scambio alcolico-diplomatico fu molto fruttuoso. Ne risultò, tra l’altro, l’impostazione dei primi accordi per la limitazione delle armi strategiche nucleari, quei Salt, l’ultimo dei quali Putin ora ha cancellato

Breznev certamente vuotò un bicchiere di vodka dopo l’altro. Mangiava poco di quel che veniva servito ai banchetti di stato. Non gli piacevano caviale e storione. Tornato nei suoi appartamenti privati si faceva spesso preparare, a quanto raccontano i suoi cuochi, un semplicissimo piatto di patate condite con panna acida (gliela andavano a cercare, specialmente per lui, in Ucraina). Ma non rinunciava alla vodka. C’è chi sostiene che l’alcol dia un vantaggio strategico nei negoziati complessi, specie a quale delle due parti è abituata a sopportarlo meglio. Ma è accertato che l’euforia da alcol porta in genere una delegazione negoziale a non cogliere appieno le opportunità offerte dalla controparte, o addirittura a lasciarsi andare a svelare segreti della propria strategia a vantaggio degli interlocutori.  Sull’argomento c’è la testimonianza di Edward Rowney, il generale che servì da consulente sia per i presidenti democratici che quelli repubblicani nelle trattative sul disarmo. Nelle sue memorie sostiene che dei brindisi si avvantaggiarono i sovietici, che reggevano meglio la vodka. Non si sa se a Mosca abbia bevuto vodka anche Nixon. Ma è possibile che gli avessero consigliato di limitarsi a bagnare le labbra, così come per la visita cinese di pochi mesi prima gli avevano consigliato di non azzardarsi a trangugiare il mao-tai.

Allora come oggi nei grandi banchetti in Cina si brinda a colpi di questo distillato di cereali sapientemente invecchiato. E’ forte, 53 gradi, più forte del whisky e della grappa. Dà facilmente alla testa. “Lama di rasoio liquida”, ebbe a definirlo il grande anchorman Dan Rather che accompagnava Nixon e Kissinger. Ganbei!,  suona il brindisi cinese, mentre si rovescia il bicchiere per dimostrare che lo si è svuotato. E’ l’equivalente del nostro “alla salute!”, o “prosit” nella versione tedesca. Sarebbe buona educazione rispondere bevendo d’un fiato. All’inizio lo facevo anch’io, quand’ero corrispondente a Pechino. Poi imparai a far finta e a limitarmi ad inumidire le labbra. Sono bicchierini, non bicchieroni. Ma l’effetto può essere micidiale se non si è abituati. Ho visto Deng Xiaoping, già parecchio anziano, trangugiarne uno dopo l’altro. Evidentemente per lui era un complemento necessario dei piatti al peperoncino rosso del Sichuan per cui andava matto. In un telegramma cifrato a Washington, l’allora assistente di Kissinger, Alexander Haig, in avanscoperta a Pechino per gli ultimi ritocchi alla visita, aveva perentoriamente avvertito che “per nessuna ragione il presidente deve bere davvero il liquore versatogli nel bicchiere, nemmeno quando risponde ai brindisi”. E aveva aggiunto, a scanso di equivoci, che i bicchierini vanno alzati solo per accompagnare i brindisi, non come accompagnamento al pasto

I brindisi di Nixon e Kissinger nella Cina di Mao sono da manuale di diplomazia e di retorica. Quanto le cose dette da Zhou e da Mao. Si erano studiati bene, forse meglio di quanto fanno oggigiorno. Oltre che all’interlocutore erano rivolti al rispettivo pubblico. Ai cinesi andava spiegato perché, dopo decenni di odio sistematicamente conculcato contro gli “imperialisti americani”, ora venivano invitati, trattati con deferenza, rimpinzati in banchetti sontuosi e chiamati “amici americani”. Niente venne lasciato al caso. Ci sono studi che ricostruiscono in modo minuzioso come nei mesi precedenti alla visita di Nixon cambiarono i toni, sulla stampa destinata al grande pubblico, ma soprattutto nelle pubblicazioni neibu, interne, destinate ai quadri di partito. Mao era un despota assoluto, ma doveva guardarsi dall’opposizione interna al gruppo dirigente, di chi osteggiava come eccessiva l’apertura agli americani. Negli appunti dei colloqui riservati, presi da uno degli accompagnatori di Kissinger e Nixon, il futuro ambasciatore Usa a Pechino Winston Lord, c’è Mao che racconta ai suoi interlocutori che “qualcuno era contrario”, e in particolare Lin Biao, il successore ufficialmente designato, il cui aereo fu abbattuto sopra la Mongolia mentre stava cercando di fuggire in Unione sovietica. 

Nixon gli risponde che anche in America c’era chi aveva remato contro. Anche lui aveva delle spiegazioni da dare al pubblico americano, a cui la Cina comunista era stata additata per decenni come il “pericolo giallo” per eccellenza, l’origine di ogni complotto internazionale. La Cina non era solo un avversario strategico, era un nemico perfido e mortale. Era la Spectre come veniva rappresentata nei film di James Bond. Contro il milione di “volontari” mandati da Mao in appoggio alla Corea di Kim Il Sung gli americani, anzi l’Onu, avevano combattuto una guerra ferocissima, atroce, appena vent’anni prima. Il generale MacArthur avrebbe voluto usare l’atomica. E fu fermato, anzi licenziato da Truman. Bisognava dirgli come mai da un giorno all’altro i comunisti cinesi diventavano interlocutori validi e graditi, anche se non ancora amici e partner. 

Nixon come Mao aveva a che fare con un’opposizione interna. Anche, anzi soprattutto nell’apparato di governo molti non erano per nulla convinti dell’opportunità di aprire alla Cina, e di abbandonare il vecchio alleato Chiang Kai-shek e Taiwan. “Ai vari livelli nel [nostro] governo c’è una masnada di figli di puttana […] Ho fatto i miei compiti e ho trovato che il 96 per cento della burocrazia è contro di noi; sono bastardi che vogliono solo farci il c…”, dice Nixon, puntualmente registrato, nella riunione di gabinetto del 29 giugno 1971. Ce l’ha con i diplomatici di carriera: “Li conosco uno per uno, non ce n’è uno che valga un fico secco [a damn]”. Si tratta di un problema con cui ha a che fare anche Joe Biden: sono ormai centinaia i diplomatici e gli alti funzionari della sua amministrazione che si sono dimessi in disaccordo, in qualche caso anche pubblicamente esplicitato, con la sua politica estera, e specificamente con le posizioni sulla guerra in Ucraina e di sostegno a Israele. Al confronto, la fronda che si intuisce alla Farnesina contro la posizioni su Ucraina e Israele sembra una bazzecola. Nixon poi aveva anche un altro svantaggio, enorme, rispetto a Mao. Era costretto a sottoporsi a elezioni libere. 

Oltre che con i suoi, Nixon si lamentava di avere a che fare con una stampa ostile. Ma lo faceva in privato, non l’avrebbe mai fatto in pubblico. Sapeva bene che gli si sarebbe ritorto contro. Era ossessionato da quello che allora veniva definito come “il problema delle relazioni pubbliche”. Dall’inizio degli anni 70 era “in cima alla sua scala di interessi”, sostiene nel suo dettagliatissimo diario quotidiano Richard Haldeman, il suo chief of staff, capogabinetto alla Casa Bianca. Nixon dice continuamente: “Non stiamo facendo abbastanza per vendere la nostra narrativa”. Oppure: “Dobbiamo tener d’occhio il pallone, cioè mantenere l’appoggio del pubblico”.  “Qualunque cosa facciamo, e comunque venga fuori, saremo fatti a pezzi dai nostri critici liberal sulla stampa e in televisione”, scrive Haldeman in una nota a un suo collaboratore. Ma non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello di piagnucolare pubblicamente sulle “cattiverie” subite dall’opposizione. “La cartina di tornasole di una posizione politica sta nella capacità di ottenere appoggio interno”, conviene Henry Kissinger. I peggiori momenti di tensione tra Nixon e Kissinger riguardano proprio l’immagine destinata al pubblico. Kissinger parla molto con la stampa (un membro del Consiglio per la sicurezza nazionale stimò che dedicasse un terzo del suo tempo a questo). Nixon va su tutte le furie, gli dice di rilasciare meno interviste. Ad esempio quando, intervistato da Oriana Fallaci, Kissinger critica il presidente sud-vietnamita Thieu e loda il proprio interlocutore nord-vietnamita ai colloqui di pace da Parigi, Le Duc Tho. “Dite a Kissinger di star lontano dai giornalisti e di non sorridere quando si fa fotografare accanto a Le Duc Tho”, ordina Nixon. Ma tutte le precauzioni non gli sarebbero servite a nulla quando gli crollò addosso il Watergate.

Il massimo di ricaduta di immagine Nixon l’aveva avuto quando il mondo lo vide in tv, a colori, accanto a Zhou Enlai che con le bacchette, e con la sua tipica eleganza, gli serviva gli antipasti. Lo stare insieme a tavola, oltre che il brindare, è il momento più alto della diplomazia internazionale. Lo è sempre stato. La cucina parla un linguaggio universale, a prescindere dalle particolarità, e dalla contingenza politica, o anche bellica. Simile, in universalità, alla musica. 

Sul ruolo della cucina in diplomazia il polacco Witold Szablowski ha appena pubblicato What’s Cooking in the Kremlin: From Rasputin to Putin, How Russia Built an Empire with a Knife and Fork (Penguin, novembre 2023). Riferisce quello che gli hanno raccontato i cuochi del Cremlino. Aleksander Egnatashvili era il cuoco e l’assaggiatore personale di Stalin. Era anche, come tutti i cuochi del Cremlino, un ufficiale, addirittura un generale dell’Nkvd. Aveva stupito con le sue creazioni – memorabile un fagiano arrosto decorato con le sue stesse penne – Churchill e Roosevelt ospiti di Stalin nel 1945 a Villa Livadia a Yalta. C’è chi attribuisce anche alla sua cucina, oltre che alle abbondanti forniture di caviale e champagne, che il cuoco riusciva sempre a procurarsi, le concessioni che Stalin ottenne sul futuro dell’Europa dell’est. Come tutti i suoi successori al Cremlino finì in disgrazia. La sua amata moglie, la bellissima vedova di un barone tedesco, era già stata arrestata e liquidata con un colpo alla nuca al momento dell’invasione nazista. Viktor Belyaev, il più longevo dei cuochi del Cremlino, aveva cucinato per Breznev, Gorbaciov, Eltsin e Putin. Nixon fu tanto affascinato dalla presentazione dei suoi antipasti che non li toccò, per non sciuparli, ma li volle fotografare. La Thatcher, schizzinosa e un po’ provinciale in fatto di cucina, fece una scorpacciata dei suoi bliny
Eltsin badava più alla vodka che al cibo. Sull’importanza della vodka nella politica russa, da Ivan il Terribile in poi, Mark Schrad ha pubblicato per la Oxford Universiy Press un saggio imponente, di oltre 500 pagine, dal titolo Vodka Politics: Alcohol, Autocracy, and the Secret History of the Russian State. Ricordo quanto il collega Vittorio Zucconi aveva fatto arrabbiare i russi quando, a proposito di una sua visita negli Stati Uniti, scrisse che Eltsin era rimasto entusiasta nello scoprire che l’America era un bar lungo migliaia di chilometri, dall’Atlantico al Pacifico. Si scopre anche che il nonno di Vladimir Putin, Spiridon, aveva fatto il cuoco per gli Zar. Assai più noto è come Vladimir si fosse innamorato del suo cuoco Prigozhin, al punto di metterlo a capo della grande compagnia di ventura mercenaria Wagner, e di affidargli la riconquista dell’Ucraina. Sappiamo come andò a finire.

Se i cuochi talvolta riescono a fare miracoli, è davvero così impensabile un brindisi di pace tra russi e ucraini, o tra israeliani e palestinesi? O tra l’Iran canaglia e l’America Grande Satana (purché sia analcolico)? Magari non subito. Cina e America ci avevano messo vent’anni a brindare insieme. E poi ci sono sempre le ricadute: quarant’anni dopo quel fatidico banchetto a Pechino sono tornati a guardarsi in cagnesco. E’ da pochissimo che hanno ripreso a parlarsi. Ucraini e russi hanno la stessa identica cucina, lo stesso piatto nazionale, il bortsch, con qualche dettaglio secondario nella ricetta. Ammesso e non concesso che li separi la liceità religiosa dell’alcol, anche israeliani e palestinesi condividono una cucina molto simile. E hanno identici tabù alimentari. Kosher dicono gli uni, halal gli altri. Tra i miti fondatori c’è quello narrato nel Secondo libro dei Maccabei di sette fratelli, fanaticamente obbedienti ai dettami religiosi, che, sostenuti dalla loro madre, scelsero di morire fra torture atroci piuttosto che mangiare carne di maiale. Il divieto è condiviso da arabi e israeliani. E’ un sogno che ricomincino a parlarsi a tavola? No, è l’unico augurio possibile

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