Vladimir Putin e  Ebrahim Raisi, presidente dell'Iran - foto Ansa

L'analisi

Se Putin non viene fermato, non si ferma. In gioco ci sono deterrenza e affidabilità occidentali

Vittorio Emanuele Parsi

I senatori americani del partito repubblicano affossano il pacchetto di aiuti per l'Ucraina mentre il presidente russo se ne sta viaggiando per il Golfo, accogliendo i nemici degli Stati Uniti come il presidente dell’Iran. Ma il segnale peggiore è per l'Europa

Il voto con cui i senatori repubblicani hanno affossato il pacchetto di aiuti per Ucraina, Israele e Taiwan proposto dal presidente Joe Biden è estremamente grave. Fornisce la misura del degrado del partito che, come si usa dire, espresse Abramo Lincoln e, in tempi più vicini a noi, Ronald Reagan. Da 7 anni a questa parte il Gop è  ostaggio di un losco personaggio, Donald Trump, il peggior presidente americano degli ultimi cento anni, il solo che ha attentato alla Costituzione  e che ha contestato la legittimità della vittoria di chi lo aveva sconfitto. A questo tragico obiettivo l’America è arrivata sull’onda lunga di una deriva fatta di cinismo e di insofferenza per i princìpi, le regole e le procedure della corretta vita di una democrazia, che ha alimentato il populismo d’oltreoceano ben prima che attecchisse nel Vecchio continente. 

Il paradosso è che il trionfo del malaffare in politica è stato infiocchettato nella carta lucida e pacchiana dei cosiddetti valori “non negoziabili”, che consentono di arruolare i gonzi sotto le bandiere di quegli avventurieri della politica di cui Donald Trump, un mediocre palazzinaro dalla condotta tutt’altro che irreprensibile (e mi riferisco esclusivamente all’etica degli affari, ovvero al campo nel quale si è affermato), è la più grottesca espressione.

Il voto di mercoledì notte ricorda agli ucraini che, nella difesa della loro indipendenza e della libertà di noi tutti, devono contare innanzitutto sulle proprie forze. La forza dei convincimenti etici, innanzitutto, del loro coraggio e del loro furibondo rifiuto del servaggio verso la Russia di Putin. E’ qualcosa che quel popolo sa fin dall’inizio di questa guerra in cui il sostegno alla sua tenace resistenza è sempre giunto in ritardo e tra mille distinguo e tentennamenti delle capitali dell’occidente democratico. Ma quel voto è anche un pessimo segnale per gli Stati Uniti, il cui Senato ha fatto prevalere logiche di bassa cucina elettorale rispetto all’esigenza di continuare a provare a fare del mondo “un posto sicuro per la democrazia”. Se è vero che il sistema internazionale si sta avviando verso un assetto multipolare – o perlomeno che l’assetto unipolare frutto della sconfitta dell’Urss nella lunga Guerra fredda sta perdendo irreversibilmente energia – gli Stati Uniti non possono richiudersi in una concezione della politica e del ruolo dell’America nel mondo che neppure la superpotenza  di George Bush e Bill Clinton poteva permettersi.

Il voto suicida del Senato arriva mentre Vladimir Putin se ne sta viaggiando per il Golfo, accogliendo i nemici degli Stati Uniti come il presidente dell’Iran ma anche accolto dagli alleati come i leader di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, in barba all’incriminazione della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e all’indomani della fallimentare Cop28, forte del suo disprezzo per le regole della comune convivenza e del suo status di grande produttore energetico.

Ma il segnale peggiore è per l’Europa. Il presidente Biden ha sottolineato con chiarezza un punto che può risultare oscuro solo a persone sprovvedute, in malafede o colluse con la Russia di Putin. Se la Russia non verrà arrestata in Ucraina, non si fermerà. La credibilità della Nato e dell’Unione europea si gioca oltre i loro confini, precisamente in quel teatro ucraino dove Mosca sta testando la determinazione e la fermezza delle capitali del mondo libero. Se non riusciamo a impegnarci neppure finanziariamente e a livello di approvvigionamenti nel rintuzzare la barbara offensiva russa, come possiamo risultare credibili nella promessa di “difendere ogni centimetro del territorio degli stati membri” qualora dovesse rendersi necessario impegnare la vita delle nostre donne e dei nostri uomini in uniforme? La questione è cruciale per l’intero occidente, ma per l’Europa è evidentemente decisiva, visto che l’Ucraina confina con la Polonia e non con l’Arkansas e che nei nostri Parlamenti – e persino in alcuni dei nostri governi – forze populiste vicine al Cremlino e forse finanziate da Mosca sono presenti in quantità e in posizione chiave.

Un’ultima notazione sull’andamento della guerra. Dopo quasi due anni dall’inizio della brutale aggressione della Russia all’Ucraina, la notizia non è che la controffensiva di Kyiv non abbia raggiunto gli obiettivi prefissati, ma che la Russia non abbia ancora piegato la resistenza del popolo ucraino, nonostante l’apporto relativamente modesto delle forniture militari occidentali e le modalità brutali della sua condotta operativa. A fronte di un bilancio pubblico russo tornato ad assegnare alle spese belliche il 30 per cento del totale e di un’economia completamente asservita alla guerra, il nostro sforzo è stato lento e scoordinato. Occorre fare di più, ricordandoci tutti che cosa è in gioco. Come ha sottolineato il presidente Biden, e con buona pace dei tanti disposti a svendere la libertà ucraina in nome del proprio tornaconto e dei propri pregiudizi ideologici, la vittoria della Russia in Ucraina avvicinerebbe il rischio di uno scontro militare aperto tra il nuovo “impero del male” e la Nato e non lo allontanerebbe. Niente potrà placare il bulimico imperialismo russo, se Mosca dovesse piegare Kyiv. Questo, ovviamente, sempre che almeno la nostra libertà ci stia ancora a cuore, perché la strada della resa e del disonore rimane sempre spalancata dinanzi a noi, ovviamente camuffata con nobili appelli alla pace: dei vinti e degli schiavi.