in difesa dell'occidente

La minaccia iraniana dietro al nuovo antisemitismo globale

Claudio Cerasa

Capire ciò che rappresenta il regime di Teheran, prima di farci affari, prima di allentare le sanzioni. Ricordare qual è il nemico invisibile contro cui Israele è tornato a combattere dal 7 ottobre. E ritrovarsi per questo, domani, in piazza del Popolo a Roma

Valeva il 7 ottobre e vale ancora di più oggi. E il punto è semplice e drammatico: cosa occorre fare, oggi, per difendersi, senza ipocrisie, dal nuovo antisemitismo mondiale? Tra le lezioni più importanti lasciate in eredità da Henry Kissinger  ai suoi successori ce n’è una particolarmente attuale che riguarda un dettaglio spesso rimosso del conflitto in medio oriente. Un dettaglio composto da una parolina formata da quattro lettere che tutti coloro che da due mesi a questa parte cercano di contestualizzare la guerra tra Hamas e Israele scelgono volutamente di non considerare: l’Iran. Poco più di un mese fa, il 19 ottobre, nel corso di un discorso tenuto alla Alfred E. Smith Memorial Foundation, Kissinger ha mostrato ai suoi interlocutori cosa vuol dire indicare la presenza, in medio oriente, del re nudo. “I progressi in questa regione – ha detto Kissinger – passano dalla presenza diretta e attiva della diplomazia americana. Gli Stati Uniti devono fare di tutto per rivitalizzare il proprio ruolo storico nell’area. Ma questo richiede che l’America riconosca che, mentre Gerusalemme rinnova il suo contributo per portare avanti un ordine regionale duraturo, non ci sarà mai pace duratura finché l’Iran circonderà Israele con decine di migliaia di armi avanzate”.

 

Dal 7 ottobre a oggi, Kissinger non ha mai ipotizzato che il conflitto in medio oriente potesse sfociare in un conflitto regionale ma ha sostenuto una tesi semplice. In queste settimane, l’Iran ha imparato una lezione pericolosa: ha visto con i suoi occhi che non c’è alcun prezzo necessario da pagare per aver armato i suoi amici terroristi, i proxy, e per averli incoraggiati, anche in questi giorni, ad attaccare Israele. L’elenco è lungo: gli attacchi alle basi statunitensi in Iraq e in Siria da parte delle milizie appoggiate dall’Iran, il finanziamento dei terroristi di Hezbollah che stazionano da anni al confine nord di Israele, l’assalto dei miliziani degli Houthi alle navi mercantili internazionali dirette verso Israele, il sostegno incondizionato offerto in questi anni ai terroristi di Hamas per destabilizzare un paese che gli ayatollah iraniani sognano di spazzare via dalla mappa geografica.

 

Fino a oggi, ha notato con sconforto Yaakov Katz, ex direttore del Jerusalem Post, autore di un libro per così dire kissingeriano sul rapporto tra Iran e Israele (“Israel vs Iran: The Shadow War”), le azioni dell’Iran non sono state accolte con rappresaglie ma con regali, come la decisione dell’Amministrazione Biden di emettere una deroga alle sanzioni e garantire all’Iran l’accesso a 10 miliardi di dollari, con la consapevolezza che questo denaro sarebbe stato utilizzato per finanziare ancora di più il terrorismo. Il tema è evidente: se nessuno minaccia di fermare gli ayatollah a Teheran né li avverte che pagheranno un prezzo, cosa impedirà all’Iran un domani, quando questa guerra sarà finita, di creare nuovi terroristi per procura, addestrandoli e fornendo loro armi per attaccare Israele, magari gli Stati Uniti o magari l’Europa? Guardare negli occhi, senza bende, senza furbizie, senza ipocrisie, la minaccia iraniana non significa auspicare il bombardamento di Teheran da parte di Israele ma significa compiere un passo necessario anche se non sufficiente per provare a osservare l’orrore del 7 ottobre dicendo semplicemente mai più.

 

Si è detto spesso in queste settimane che il regime iraniano ha offerto a Hamas un sostegno ampio e diffuso per organizzare la sua azione contro Israele per risvegliare le piazze arabe ed evitare che la diplomazia potesse portare a una normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni importanti paesi arabi come i sauditi. Questo scenario potrebbe essere reale, in parte lo hanno ammesso gli stessi leader di Hamas e gli stessi vertici del regime iraniano (“accogliamo con favore questa grande vittoria strategica, che costituisce un serio avvertimento a tutti [i paesi] della regione [che cercano] di normalizzare le relazioni [con questo regime]”, ha detto l’8 ottobre Ali Akhbar Velayati, consigliere per gli Affari internazionali di Khamenei), ma è uno scenario non esaustivo, che perde di vista l’essenza vera dell’odio che esiste in medio oriente nei confronti di Israele. Un odio di cui l’Iran è il portavoce massimo: non l’antisionismo, ma l’antisemitismo. Almeno tre generazioni di esponenti religiosi iraniani radicali – hanno ricordato sul Wall Street Journal la scorsa settimana Reuel Marc Gerecht, ex funzionario della Central Intelligence Agency, e e Ray Takeyh, membro senior del Council on Foreign Relations – hanno considerato Israele “un paese illegittimo, che usurpa le sacre terre islamiche in nome di un’ideologia perniciosa portata avanti dai popoli più diabolici e testardi della storia, hanno definito Israele uno stato coloniale occidentale, hanno alimentato l’idea che gli ebrei guidino l’imperialismo americano in medio oriente e hanno invitato i musulmani, in questa lotta tra il bene e il male, a ricordare di avere l’obbligo religioso di resistere a Israele e all’ebraismo globale”.

 

“Fin dall’inizio – ha scritto l’ayatollah Ruhollah Khomeini nel suo libro “Governo islamico”, che ha ispirato i suoi discepoli più famosi,  l’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, il religioso “pragmatico” per eccellenza, e l’attuale leader supremo, Ali Khamenei – il movimento storico dell’islam ha dovuto lottare con gli ebrei, perché sono stati loro che per primi hanno lanciato la propaganda anti islamica e si sono impegnati in vari stratagemmi, e come potete vedere, questa attività continua fino ai giorni nostri”. La politica occidentale nei confronti della teocrazia iraniana, suggerisce ancora il Wsj, dovrebbe vedere il regime come lo vede Khamenei e ricordare che l’antisemitismo non è accidentale ma è la molla che spinge il regime iraniano a dare sostegno alle milizie radicali in tutto il medio oriente per combattere la cospirazione ebraica che controlla l’occidente.

 

Guardare negli occhi ciò che rappresenta quel regime, prima di farci affari, prima di allentare le sanzioni, prima di sottovalutare la sua minaccia, prima di dimenticare che l’Iran non smetterà di sostenere i gruppi terroristici finché non sarà costretto a farlo, significa ricordare qual è il nemico invisibile contro cui Israele ha ricominciato a combattere dal 7 ottobre: l’intifada mondiale, che sta trasformando l’odio nei confronti di Israele in una versione più addolcita dell’odio contro gli ebrei. Anche grazie all’Iran, l’antisemitismo è tornato. Anche per questa ragione domani vale la pena andare in piazza del Popolo, a Roma, tutti insieme, per ricordare che il modo più efficace per dire no al terrorismo è ricordarsi, come direbbe probabilmente anche Kissinger, cosa c’è in ballo oggi quando si parla di difesa di Israele: difendersi, semplicemente, dal nuovo antisemitismo mondiale.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.