L'intervista

"Il 7 ottobre è la fine del compromesso e il ritorno del Jihad". Parla Georgers Bensoussan

Giulio Meotti

"La guerra in Israele è un nuovo episodio della lotta tra due nazionalismi. Ma questa lettura non funziona più. Una lettura religiosa sembra più convincente con un’organizzazione islamista che non prevede né compromesso né negoziazione, ma solo la distruzione dell’altro" dice lo storico al Foglio

È sera quando i corpi senza vita di due “collaborazionisti d’Israele” sono trascinati per strada, dileggiati e al grido di “Allahu Akbar” appesi a un palo della luce. Non siamo a Gaza sotto Hamas, ma a Tulkarem sotto l’Autorità Nazionale Palestinese, finanziata dalla Ue, dall’Onu e dagli Stati Uniti, a soli dieci chilometri dalla città israeliana Netanya. Una ferocia che sembra confermare la tesi di Georges Bensoussan, lo storico francese che ha scritto “Storia della Shoah” (Giuntina), “Genocidio, una passione europea” (Marsilio), “Il sionismo” e “L’eredità di Auschwitz” (entrambi per Einaudi). “Il 7 ottobre è un nuovo episodio nella lotta tra due nazionalismi, ma questa lettura occidentale non funziona più” dice Bensoussan al Foglio. “Una lettura religiosa sembra più convincente con un’organizzazione islamista che non prevede né compromesso né  negoziazione, ma solo la distruzione dell’altro. Non è un movimento politico, ma millenarista condannato a schiacciare o essere schiacciato”.

Su questo piano, Hamas è la continuazione della lotta guidata dal mufti di Gerusalemme Amin al Husseini, che tra l’inizio degli anni ’20 e il 1949 si oppose a qualsiasi accordo e rifiutò tutte le vie negoziali offerte dagli inglesi. “Fino al rifiuto nel 1947 della decisione delle Nazioni Unite di spartire la Palestina in due stati” continua Bensoussan al Foglio. “È un riflesso della lotta condotta sul campo dagli arabi di Palestina, una lotta che non fa prigionieri ebrei né lascia dietro di sé alcun ebreo ferito. Qualsiasi avversario che cade nelle loro mani (compresi i bambini) in un convoglio caduto in un’imboscata, ad esempio, viene assassinato. Questo livello di violenza estrema, accompagnato dalla crudeltà nell’uccisione e nella profanazione dei cadaveri, scuoterà le coscienze della comunità ebraica, compresi i suoi membri più pacifisti, e finirà per distruggere ogni possibilità di convivenza tra i due popoli. La violenza estrema con intenti genocidi come quella del 7 ottobre 2023 ti blocca in un’alternativa omicida: ‘Loro o noi’. Il conflitto è meno politico che esistenziale contro uno stato di Israele giudicato colpevole di esistere. Una visione che affonda le sue radici nella psiche degli individui abitati dal delirio paranoico dell'antisemitismo che fa dell'ebreo la spiegazione ultima dei disordini del mondo. Avendo la Shoah ‘disonorato l’antisemitismo’, come ha affermato Georges Bernanos, è lo stato ebraico a essere al centro di una fantasmagoria poco attenta alla storia. Queste rappresentazioni mentali fanno parte di un delirio collettivo, come la ‘caccia alle streghe’ che si diffuse in gran parte dell'Europa centrale nel XVII secolo, o la febbre antisemita europea della seconda metà del XIX secolo. Solo un’analisi culturale e antropologica, unita alla psicoanalisi, sarebbe in grado di districare questo  intreccio. Ecco perché cercare di dimostrare che lo stato d’Israele non cerca di uccidere bambini piccoli o di sventrare donne incinte è praticamente inutile perché le convinzioni, più forti dei fatti, costituiscono una colonna vertebrale della psiche e una difesa contro l’ansia della libertà”. 

Parti importanti del mondo islamico sono ancora ossessionate dalla distruzione di Israele. “Adducerò tre ragioni, semplificando” ci dice Bensoussan. “Innanzitutto perché il dogma islamico espresso nella Sunna e nella Sira (la vita di Maometto), come in alcune parti del Corano, implica una visione degradata dell'ebreo. Il suo status di dhimmi (‘protetto’ o ‘sotto l’egida di’) implica un’inferiorità giuridica che, a lungo andare, configura un’inferiorità antropologica. Con lo stato di Israele la regola fondamentale che regola i rapporti tra ebrei e musulmani è stata calpestata. In secondo luogo, secondo la regola coranica, un ebreo non può comandare un musulmano. Con lo stato di Israele, gli ebrei comandano i musulmani in Israele così come in Cisgiordania. Questa situazione è un’assurdità teologica. In terzo luogo, il successo dello stato di Israele è uno schiaffo in faccia alla psiche araba collettiva. Mette in luce il fallimento complessivo del mondo arabo, la sua incapacità di costruire una società democratica e aperta, la sua incapacità di trattenere i suoi giovani qualificati, ecc., un fallimento tanto più violento in quanto contrasta con il successo di buona parte dei paesi asiatici. Pertanto, per spiegare il successo israeliano, gran parte del mondo arabo ricorre alla teoria del complotto. A maggior ragione quando occorre spiegare le vittorie militari israeliane sugli eserciti arabi. Anche questo è il motivo, oltre al suo aspetto religioso in senso stretto, per cui questo conflitto sta assumendo sempre più una svolta antropologica, quella dello scontro tra due modelli di società, una società aperta e orizzontale, di fronte a una società verticale, autoritaria e clanica”. 

Cosa rispondere a coloro che accusano Israele di rubare terre ai palestinesi giustificando così gli orrori di Hamas. “Questa è una questione centrale. Gli ebrei sono accusati di essere intrusi, ‘colonialisti’. La realtà storica dice il contrario: assistiamo, nel XIX secolo, all’interno della minoranza ebraica continuamente presente su questa terra, a un movimento di rinascita nazionale ebraica. Un movimento che intende emanciparsi dal diritto ottomano (lo fece nel 1918) e soprattutto dalla dhimma, abolita per legge nel 1856, ma che di fatto persiste nelle mentalità. Liberarsi di questa secolare oppressione che rende gli ebrei (e i cristiani) cittadini di seconda classe è ciò che rende il sionismo, fin dalle sue origini, un movimento di emancipazione e una lotta anticolonialista contro una condizione dominata dall’islam. È questa lotta che, nata dall’interno della Palestina stessa e alla quale si unisce il movimento sionista dall’esterno, intende rifondare uno stato-nazione nella terra dei nostri antenati”. 

Ma la Umma è impegnata a negare che esista una terra degli antenati. “Sappiamo che il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme è oggi contestato. Ma allo stesso modo in cui possiamo, con la stessa sicurezza, assicurare che la terra è piatta e che il sole gira attorno al nostro pianeta. Queste sciocchezze ideologiche non impediscono che Gerusalemme venga nominata più di 600 volte nella Bibbia. L’accusa di colonialismo rivolta agli ebrei ha un insospettabile aspetto orwelliano. Questa è l'origine di questa tragedia. Coloro che volevano la guerra l’hanno persa e oggi si presentano come vittime di un ‘oppressore colonialista’. Attraverso un’efficace macchina propagandistica, manipolano la compassione universale e tendono (generalmente con successo) a farci dimenticare le origini di questa disgrazia. Il principio della sovranità  ebraica e quello della liberazione da uno status discriminatorio sembrano difficilmente accettabili in un mondo arabo-musulmano che, nonostante alcuni tentativi hanno mancato il movimento illuminista occidentale”. 

Rimangono infine altre questioni storiche, raramente sollevate e tuttavia cruciali per chi vuole comprendere, al di là della legittima emozione di ciascuno, il caos di oggi. “Perché lo stato arabo previsto dal voto delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 non è nato contemporaneamente allo stato di Israele? Alla fine della guerra, nel gennaio 1949, perché non fu proclamata l’indipendenza della Palestina araba in Cisgiordania e Gaza? Perché i rifugiati palestinesi, tre quarti dei quali rimangono in Palestina, non sono stati ricollocati in patria, ma rinchiusi nei campi profughi, rendendoli, nel mondo, gli unici rifugiati di padre in figlio? Perché i rifugiati che hanno raggiunto i paesi vicini, ad eccezione del Regno di Giordania, non hanno ricevuto né permessi di lavoro né naturalizzazione? Perché la Cisgiordania, parte dello stato di Palestina concepito dalle Nazioni Unite, fu annessa dal re Abdullah nel 1949? E perché il territorio di Gaza era allora amministrato dall’Egitto? Perché la Lega Araba ha accettato per 18 anni (1949-1967) che questi territori palestinesi non avrebbero dato origine a uno stato di Palestina indipendente? Infine, perché l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite creata nel 1950 su base temporanea per aiutare i rifugiati palestinesi, continua nel 2023? È in queste origini storiche che risiede la verità del conflitto”. L'attacco del 7 ottobre è stato costellato da atti di barbarie. “L’efferatezza di cui parli non è un’operazione militare, è una ‘caccia agli ebrei’ in una violenza che è implicitamente la risposta alla rivolta degli ebrei dominati contro la sua condizione di dhimmi, la risposta all'’arroganza’ dal sottomesso di ieri che pretende di fondare uno stato-nazione in Palestina. È la sua ribellione che intendiamo far pagare all’ebreo con questo sfogo di crudeltà. Tuttavia, gli occidentali oggi sono incapaci di comprendere questa economia dell’odio, sognano da woke una società pacifica ed edonistica, dimenticando che la forza principale dei popoli, come diceva Raymond Aron, non risiede tanto nella ricerca dei propri interessi razionali quanto piuttosto nella ricerca trionfo delle loro passioni arcaiche”. 

La politica è accettazione della realtà, il messianismo apocalittico appartiene ad un altro ambito, conclude Bensoussan. “Il nazionalismo è capace di negoziare con la realtà anche a costo di maledirla perché è consapevole dei suoi limiti. Per lui la politica è un mezzo. Questa concezione si ispira alla modernità dell'Illuminismo e più precisamente allo shock intellettuale e politico delle guerre di religione in Europa nei secoli XVI e XVII, che portarono per la Francia all'Editto di Nantes e per l'Europa ai trattati di Vestfalia (1648). Il mondo arabo-musulmano ha conosciuto diversi tentativi di modernità. Ma questo promettente vento di liberalismo, dal Cairo a Baghdad, si esaurì negli anni ’30 sotto il peso delle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa, e si perse definitivamente con la sconfitta araba del 1967 che, di conseguenza, conferì all’islam un peso maggiore nel 1979 con la vittoria degli islamisti sciiti a Teheran. Tuttavia, l’orizzonte islamico di cui Hamas partecipa è la Jihad che separa il mondo tra la terra dell’Islam e la terra della guerra (Dar el Harb) combattuta per la conquista. Una concezione del mondo evidentemente in contrasto con lo spirito dell'Illuminismo e che rende impossibile qualsiasi soluzione politica”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.