Il piano di Hamas, che non molla gli ospedali

Micol Flammini

I terroristi si sentono protetti dentro ad al Shifa e sanno di costringere Israele a una battaglia su tre fronti: Gaza, la politica e gli alleati

Il 7 ottobre, dopo la violenta incursione nel territorio di Israele, duecento terroristi di Hamas sono tornati a Gaza City e si sarebbero rintanati direttamente dentro all’ospedale di al Shifa, la struttura ospedaliera più importante della Striscia. Alcuni dei terroristi catturati dopo l’attacco contro i kibbutz del sud, la maggior parte provenienti dall’unità Nukhba, avevano raccontato che l’ospedale nascondeva uno dei centri operativi di Hamas. Era una conferma di informazioni che le forze israeliane avevano già raccolto e i soldati che  avevano messo piede dentro a Gaza hanno convogliato le loro forze per raggiungere la struttura. Lungo la strada non hanno trovato una particolare resistenza da parte dei terroristi, quindi sono andati oltre, fino a circondare l’ospedale. Mettere dentro a una struttura medica armi e munizioni, nascondersi tra i civili – malati e rifugiati – per evitare di essere colpiti, usare i reparti come porta d’accesso per raggiungere i tunnel è un crimine di guerra, ma Hamas, che ha spesso usato questa pratica come altri gruppi di terroristi, sa che è il modo migliore per bloccare le operazioni di chi tenta di combatterlo. Israele ha chiesto di evacuare la struttura e non tutti i pazienti sono in condizioni di essere portati via, alcuni ospedali hanno smesso di funzionare, al Shifa per dei pazienti rappresenta l’unica salvezza. Ci saranno sempre dei civili che avranno bisogno di cure, che non potranno essere spostati, quindi sarà difficile creare le condizioni per permettere a tutti  di abbandonare al Shifa, che in questo momento Hamas ha reso il punto centrale dell’operazione di Israele dentro Gaza. Le evidenze della presenza dei terroristi non vengono soltanto da Gerusalemme, sono state confermate anche dagli Stati Uniti. 


Il presidente americano Joe Biden dall’inizio della guerra ha continuato a ripetere a Israele che bisogna fare di più per salvare i civili, ma non ha mai smentito le informazioni di intelligence israeliane. Così Israele ha iniziato a offrire carburante – rifiutato da Hamas – ha offerto incubatrici portatili per allontanare i neonati, ma l’operazione di al Shifa rimane complicata e ha a che fare con delle regole alle quali un gruppo terroristico non sottostà mai e uno stato democratico deve rispettare. Ieri mattina i soldati israeliani sono entrati dentro alla struttura, c’è stato uno scontro nell’atrio dell’ospedale, sono stati condotti degli interrogatori al suo interno e l’esercito ha detto di aver trovato armi mentre Hamas ha raccontato di pazienti picchiati dai soldati di Israele senza fornire alcuna prova. L’obiettivo delle forze dell’Idf è quello di arrivare e distruggere i tunnel che però non possono essere raggiunti né distrutti con un’incursione. L’obiettivo dell’ingresso dentro all’ospedale era quello di raccogliere informazioni, cercare miliziani e tracce di ostaggi e di mettere pressione ai terroristi.  
 


 Idit Shafran Gittleman è una ricercatrice dell’Istituto per gli studi di sicurezza presso l’Università di Tel Aviv, osserva i cambiamenti delle Forze di sicurezza israeliane e come questa guerra sta cambiando tutto il paese. Ha detto al Foglio che nel caso di al Shifa bisogna tenere in considerazione che non funziona soltanto come ospedale, viene sfruttato come deposito da Hamas e rappresenta il più grande problema morale di Israele. Questo l’organizzazione terroristica che comanda nella Striscia dal 2007 lo sa bene, per questo aspetta dentro alle viscere dell’ospedale: si sente al sicuro. Secondo Shafran Gittleman, Hamas sa anche che questa guerra Israele la combatte su tre fronti: la battaglia a Gaza, la battaglia interna e quella internazionale, perché se è chiaro che usare scudi umani in guerra è vietato, non esiste una risposta chiara su cosa sia consentito fare all’altra parte, quindi a Israele. Ieri l’Oms ha condannato l’incursione dentro ad al Shifa, gli Stati Uniti invece hanno soltanto detto che non vengono informati di ogni mossa compiuta da Israele. L’ospedale rimarrà il centro ancora a lungo di una battaglia che secondo Shafran Gittleman non si fermerà a breve. L’obiettivo è eliminare Hamas, la sua rete, i suoi simboli, i suoi rifugi:  ieri è stato fatto  esplodere il Parlamento di Gaza, in cui l’organizzazione terroristica ha disposto le sue leggi a partire dal 2007. 


Il fronte interno di Israele invece ha a che fare con i cambiamenti che questa guerra sta imponendo al paese. Le strade di Gerusalemme e di Tel Aviv da giorni si riempiono per le manifestazioni delle famiglie degli oltre duecento ostaggi, convinte che il governo non stia facendo abbastanza per liberare gli israeliani rapiti. Secondo Reuters ci sarebbe un piano pronto, mediato dal Qatar e coordinato dagli Stati Uniti, che predispone lo scambio di cinquanta ostaggi per tre giorni di tregua e la scarcerazione di donne e bambini palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. C’è un piano, entrato subito in crisi. Hamas  aspetta la tregua per riorganizzarsi e i giorni di pausa sono un rischio per gli uomini di Tsahal che attendono fuori dall’ospedale. 


 Ogni esercito ha i suoi riti prima di entrare in guerra e anche Tsahal, l’esercito israeliano, ha i suoi. Gli ucraini spesso cantano l’inno, lo hanno fatto prima della grande controffensiva del settembre del 2022,  e prima dell’operazione di terra, alcune unità dei soldati israeliani hanno ascoltato una poesia di Hannah Szenes, e una delle strofe recita: “Nei falò della guerra, nelle fiamme, nel fuoco / Tra giorni tempestosi di sangue / Passo davanti alla mia piccola lampada / Cercare, cercare un essere umano”. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.