Thailandia-Israele

Gli ostaggi thai e i negoziati per liberarli. Miti e verità della "Israeli connection"

Massimo Morello

La United travellers connection è l'agenzia di viaggio (ma non solo) che lega Bangkok a Gerusalemme. Ma è anche metafora dell'antisemitismo globale

“Israeli connection”. Secondo il complottismo antisemita evoca oscure cospirazioni ebraiche. A Bangkok è il nome con cui è nota la United travellers connection, ristorante, agenzia di viaggio, internet point, deposito bagagli in cui si ritrovano le decine di migliaia di turisti israeliani che ogni anno transitano nella capitale thailandese. La Israeli connection è una metafora del legame tra Thailandia e Israele, ma anche degli equivoci e della disinformazione che sono tra i sintomi dell’antisemitismo globale. Tanto più dopo che il vice primo ministro e ministro degli esteri thailandese Parnpree Bahiddha-Nukara ha dichiarato che i 23 lavoratori thai tenuti in ostaggio da Hamas nella striscia di Gaza dovrebbero essere tra i primi a essere liberati.

Il ministro ha precisato che l’informazione gli è stata comunicata durante il suo recente viaggio in Egitto e Qatar dove ha incontrato il suo omologo iraniano. Stando a fonti thailandesi, tuttavia, il merito dell’operazione andrebbe ascritto ad Areepen Uttarasin, ex ministro dell’Educazione, che assieme ad altri rappresentanti della minoranza musulmana thai, il 26 ottobre ha incontrato a Teheran degli alti ufficiali di Hamas, discutendo per oltre due ore. “Non è stato un incontro ufficiale a livello governativo, ma è stato possibile grazie a speciali relazioni personali. Ci vedono come amici” ha tenuto a precisare Areepen.

Non altrettanto amichevoli i musulmani che vivono nelle tre provincie dell’estremo sud thailandese, dove da decenni sono attivi movimenti insurrezionalisti malay in un conflitto che ha già provocato oltre  7 mila morti. Un comunicato del Bnr, il Barisan Revolusi Nasional, il più importante gruppo separatista afferma: “I musulmani del Bnr sono a fianco dei fratelli e delle sorelle musulmani in Palestina perché siamo entrambi colonizzati e la nostra lotta conto i Siamesi (antico nome dei thai) a Pattani (una delle tre provincie del sud) e contro gli israeliani in Palestina è giusto”.

La maggioranza dei thai, invece, definisce i separatisti del sud come “joen tai” ossia “banditi del sud”. “Perché va laggiù? Sono gente cattiva” fu detto durante un reportage del Foglio di qualche anno fa. Quelle stesse persone, dopo gli attacchi in cui, oltre gli ostaggi, sono stati uccisi 33 lavoratori thai e ne sono stati feriti 18, definiscono i politici e gli intellettuali del Sud come traditori della patria e affermano che tutti coloro che simpatizzano con i palestinesi non dovrebbero essere più considerarsi thai.

Secondo Hara Shintaro, un sociolinguista giapponese di fede islamica che ha scelto Pattani come campo di studi alla fine degli anni Novanta, tutta questa vicenda dovrebbe servire al nuovo primo ministro thai Srettha Thavisin per riprendere quei colloqui di pace con i gruppi malay indipendentisti interrotti ormai da quasi un anno. E ancor più ai rappresentanti di quei gruppi come Areepen ad accreditarsi quali salvatori degli ostaggi. Come aveva detto Hara in un’intervista al Foglio, anche nel Sud “lo cose vanno alla maniera thai: si cerca sempre un compromesso”.

Intanto la vicenda degli ostaggi thailandesi è stata pretesto per nuove critiche a Israele. Secondo molti attivisti e organizzazioni umanitaria, infatti, i 30 mila thai che lavoravano come agricoltori prima dell’attacco di Hamas erano sfruttati, vittime di abusi e vivevano in condizioni “squallide”. Dopo l’8 ottobre, tuttavia, solo 8 mila di loro sono stati rimpatriati e circa ventimila hanno già dichiarato di voler restare. Sicuramente molti sono trattenuti da un salario circa dieci volte superiore a quello che avrebbero guadagnato in Thailandia, altri dalla speranza che la crisi abbia fine rapidamente e il lavoro possa riprendere rapidamente, altri ancora temono di non essere pagati per il lavoro già fatto. Ma è difficile credere che resterebbero in Israele se le condizioni di lavoro fossero così terribili. Del resto, quelle accuse contraddicono le precedenti accuse secondo cui i thai avrebbero sottratto lavoro ai palestinesi. Del tutto infondate, infine, le accuse secondo cui i lavoratori thai sarebbero stati “reclutati” dalla Israeli Defence Force. I thai che combattono sono i figli delle circa 500 thailandesi che hanno sposato uomini israeliani, hanno la doppia nazionalità e sono stati richiamati come riservisti.

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