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I labirinti del terrore

Siegmund Ginzberg

Da Kafka a Dürrenmatt alle gallerie di Gaza. Come i tunnel sono diventati l’incubo collettivo dell’umanità

"Sembrava che la galleria scendesse, ma non ne ero sicuro perché spesso invece dovevamo arrampicarci, tanto si faceva ripida, e poi calarci con le corde verso incerte profondità. A tratti l’intrico di pozzi e gallerie era elaborato, e dotato di complessi sistemi di ascensori, a tratti tutto era indicibilmente primitivo, come costruito in tempi antichissimi, prossimo al crollo [a tratti] il labirinto pareva farsi più semplice. La galleria correva dritta, ma non riuscivo a capire in che direzione. A volte procedevamo per chilometri nell’acqua gelida che ci arrivava fino alle ginocchia. A sinistra e a destra di diramavano, dalla nostra, altre gallerie. Le pareti stillavano acqua, però a volte c’era un silenzio mortale, si sentivano solo i nostri passi".

Non è la testimonianza di un ostaggio trascinato qua e là per il labirinto dei tunnel sotto Gaza. È una pagina del racconto "La guerra invernale nel Tibet" che lo scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt stese tra 1975 e 1981 (riprendo dall’edizione dei Romanzi e racconti, a cura di Eugenio Bernardi, pubblicata da Einaudi-Gallimard). Chi parla, anzi scrive con un punteruolo sulle pareti di chilometri di gallerie nel ventre delle montagne più alte al mondo, è un mercenario. Ridotto in sedia a rotelle, forse l’unico sopravvissuto. È un mercenario dell’amministrazione, l’autorità planetaria succeduta alla catastrofe della Terza guerra mondiale. Il suo è un esercito “composto da tutte le razze della terra: un gigantesco negro nel Congo combatte accanto a un malese, un biondo scandinavo accanto a un aborigeno australiano, e non ci sono soltanto ex soldati a combattere, ma anche membri di disciolte organizzazioni clandestine, terroristi di ogni ideologia, e inoltre killer di professione, mafiosi e comuni galeotti”. Ma esattamente “lo stesso vale per l’esercito nemico”. 

Combatte la guerra invernale nel Tibet. “Guerra invernale perché sui pendii del Chomo-Lungma. Del Chooyo, del Makalu e del Manaslu è sempre inverno. Combattiamo il nemico ad altitudini fantastiche, su ghiacciai e ripidi pendii, su ghiaioni, crepacci e sotto strapiombi, in un labirinto di trincee e fortini […]. E la lotta è ardua, perché amici e nemici indossano le stesse uniformi bianche […]. Quando non siamo in azione, ci rintaniamo nelle cavità del ghiaccio, nelle gallerie e nei camminamenti scavati nella roccia, collegati fra di loro a formare negli imponenti massicci montuosi un confuso groviglio, al punto che anche là dentro le parti avverse si incontrano inopinatamente e si massacrano”.

Fiction profetica? In realtà è un romanzo politico-filosofico. Scritto in un momento della Guerra fredda in cui sembrava possibile una guerra mondiale nucleare (la storia procede a cicli, viviamo un momento in cui di nuovo l’impossibile appare possibile). Il labirinto, che dalle montagne dell’Himalaya si estende fino all’Engadina e all’Alpe di Blümli, è quello della condizione umana. Come della condizione umana ci dice un altro racconto su infiniti labirinti, molteplici gallerie, stanze per custodire cibo e rifornimenti, uscite a non finire per sfuggire o aggredire a sorpresa i nemici, l’ossessione di sentirsi preda e predatore: La tana di Franz Kafka, un autore a cui Dürrenmatt fa riferimento. “Perché l’uomo, qualsiasi cosa descriva, descrive sempre se stesso”.

Anche i tunnel sotto Gaza ci parlano della condizione umana. Sono un incubo per Tsahal, ma anche un incubo per l’umanità, per tutti noi. Nessuno ha un’idea precisa di quanto si estendono, e in quali direzioni. Forse nemmeno chi li ha progettati, certo non chi li ha costruiti (pare ci facessero lavorare soprattutto i ragazzini – che “si infilano dappertutto” – non si sa quanti vi siano morti, vittime di crolli e incidenti, solo che le famiglie venivano compensate con importi simili a quelli dei kamikaze e dei “martiri” combattenti). A differenza dei tunnel a nord, al confine con il Libano, sono scavati non nella roccia o nel tufo, ma nella sabbia, con pareti in cemento. Si estendono a zig zag, per centinaia e centinaia di chilometri, con svolte e ramificazioni improvvise, incroci e vicoli ciechi a sorpresa, trappole e trabocchetti, su e giù, dai 10 agli 80 metri di profondità, forse anche di più, stanze grandi abbastanza da ospitare automezzi e missili, e lussuose abbastanza da ospitare la dirigenza di Hamas, e probabilmente gli ostaggi. “Servono ai combattenti di Hamas, non alla popolazione, che a quella ci deve pensare l’Onu”, ha dichiarato un loro portavoce alla domanda, postagli da un giornalista, sul perché non usano quella che è stata definita la “metropolitana di Gaza”, come rifugio per i civili, come succede nelle guerre nel resto del mondo, ad esempio nella metropolitana di Kyiv. Il campo profughi di Jabaliya – una metropoli di cemento non più tende e baracche, uno dei luoghi più affollati al mondo – è stato bombardato perché, sostengono i militari israeliani, faceva parte “dell’infrastruttura sotterranea del terrore”. La ragnatela si infittirebbe sotto scuole e ospedali. Hanno mostrato in tv un modello di quanto sarebbe celato sotto lo Dar al-Shifa, il principale ospedale di Gaza City. Sinora l’aviazione israeliana ha bombardato tutto attorno ma non ha raso Shifa al suolo. Forse perché Biden continua a martellare che non si spara sulle ambulanze, anche se si ritiene che trasportino terroristi assassini.  

“A Gaza la guerra non è tanto con Hamas ma con i tunnel” (con i tunnel, non nei tunnel), dice il maggiore Ori Attar, che nel 2014, nella precedente invasione israeliana su vasta scala di Gaza, era comandante della Brigata 261, incaricata di distruggere l’infrastruttura sotterranea. Era l’Operazione Margine di protezione. Ne avevano scoperti e neutralizzati alcune decine, uno era lungo un paio di chilometri, c’erano volute 800 tonnellate di cemento per costruirlo. Se ne sono aggiunte altre centinaia, forse migliaia. C’è chi ha stimato che ci siano almeno 1.300 tra gallerie e cunicoli. “Vanno conquistati e ripuliti centimetro per centimetro”, insiste Attar. “Erano già sofisticati dieci anni fa. Ora saranno vere e proprie opere di alta ingegneria”, dice. “Hanno detto di aver distrutto 100 km di gallerie. Vi dico che i tunnel che abbiamo nella Striscia superano i 500 chilometri”, aveva detto nel 2021 Yahya Sinwar, il numero uno nella lista dei capi di Hamas da eliminare. “E’ un uomo morto”, hanno detto i portavoce militari israeliani. Continuo a fissare una foto del 2021 in cui si vede Sinwar esibire un sorriso diabolico mentre è seduto in poltrona, in atto di sfida, tra le rovine della sua casa a Gaza appena demolita da un raid aereo israeliano. E’ uno che ha passato 23 anni nelle prigioni israeliane. Davvero crediamo che si faccia intimidire? Chissà dove si nasconde, forse non è nemmeno più nei tunnel. Si svolge a Gaza antica, a pochi chilometri dall’odierno immenso agglomerato urbano, la vicenda di Sansone di cui la Bibbia narra nel Libro dei Giudici. Ricordate il “Muoia Sansone con tutti i filistei”? Milton, che aveva molti riguardi per Satana, ne fece l’eroe del suo Samson Agonistes, che significa “Sansone il Campione”, “Sansone il Combattente”.

Si capisce poco dell’avanzata israeliana a Gaza. E di come intendano affrontare i tunnel. Il black out ha le sue ragioni. Se fossi un comandante israeliano mi guarderei bene dal rivelare i miei piani militari. Si dice che stiano attuando tattiche del tutto nuove, integrate a strati, con gli aerei, i droni, i missili e l’artiglieria che bombardano con precisione pochi metri davanti l’avanzata lenta e sistematica dei carri armati e della fanteria. Poi arrivano le ruspe corazzate a sbriciolare e asfaltare i detriti. Nelle immagini che scorrono in tv si vedono edifici accartocciarsi come grotteschi castelli di carte, sbriciolarsi in nuvole di polvere, sotto singole bombe o missili lanciati con grande precisione. Talvolta gli abitanti vengono avvertiti per telefono di allontanarsi, nel giro di pochi minuti. Talvolta no. Presuppone un lavoro certosino di intelligence, improbabile che i numeri di telefono e di cellulare li abbiano trovati negli elenchi pubblici. Ospiterebbero, camuffati in edifici civili, centri comando, depositi di munizioni, postazioni di missili e le fabbriche dei missili fatti da sé, che Hamas continua a lanciare, come se avesse scorte inesauribili

Rispetto al passato si dispone certo di mezzi tecnologici molto più sofisticati. E’ impossibile individuare gallerie e cunicoli con i radar, e forse nemmeno con i satelliti. I Gps non funzionano. Le radio sono inutilizzabili per le comunicazioni. Specie per quelli a grande profondità. Ci sono geofoni avanzati, nuove generazioni di radar capaci di percepire la minima vibrazione. Con l’intelligenza artificiale applicata in tempo reale, da bordo di aerei in volo, a ripercorrere a ritroso i passi dei miliziani che lanciano i missili, si riesce a scoprire da dove sono sbucati fuori. 

I tunnel bisogna innanzitutto individuarli. E ci vuole tempo. Molto tempo. L’unica certezza è che sarà lunga. C’è chi ha notato che nell’Operazione Scudo al nord, lanciata nel 2018 per individuare i tunnel di Hezbollah che attraversavano la frontiera tra Israele e il Libano c’erano volute sei settimane per scoprire sei tunnel. E allora neanche si sparava. E una volta individuati resta da fare il più per neutralizzarli. Ci sono bombe capaci di penetrare in profondità, anche i bunker. Si è già in passato usato l’Emulsa, un gel esplosivo potentissimo. Ma ce ne volevano da 10 a 11 tonnellate per distruggere anche un solo tunnel. Ci sono i visori a raggi infrarossi per combattere al buio. Ma una recente esercitazione di guerra nei tunnel condotta dalle forze armate britanniche Leeds h mostrato che sono pressoché inutili nel buio totale. L’uso dei gas e di altre armi chimiche rischia di ritorcersi contro gli assalitori, oltre che di essere letale per eventuali ostaggi. Si dice che siano state messe a punto schiume rapide, capaci di turare i tunnel e proteggere dagli agguati. I tunnel si possono allagare, bruciare, affumicare, ma non è esattamente una tecnica nuova. Ci sono robot in grado di sopravvivere in ambiente umido e salire e scendere gradini e scale a pioli. Si è parlato del ricorso a squadre di cani addestrati alla bisogna. Suggestivo. Specie dopo che l’altro giorno, per distrarmi un attimo dalla guerra sono andato al cinema a vedere Dogman di Luc Besson. Non ho idea di quanto possa funzionare oltre la fiction cinematografica.

Sono almeno due millenni e mezzo che la guerra si fa nei tunnel. A Gaza si scavavano tunnel sin da quando, nel 1457 avanti Cristo, il faraone Thutmosi III la cinse d’assedio per domare la rivolta dei cananei. Alessandro Magno aveva fatto scavare gallerie per minarne le mura. Ma poi anche lui si era dovuto arrendere di fronte al reticolo di gallerie, negli antichi canali di irrigazione, in cui si rifugiavano gli avversari quando aveva invaso l’odierno Afghanistan. Prima che arrivasse Hamas servivano, da tempi immemorabili, soprattutto per il contrabbando. 

Gli Americani in Vietnam avevano costruito una base a Chu Chi, 250 chilometri da Saigon e dalla frontiera cambogiana, proprio a cavallo della rete di tunnel da cui passavano i rifornimenti ai guerriglieri, dopo aver percorso attraverso Laos e Cambogia lungo il sentiero Ho Chi Min. Grazie al tipo di terreno argilloso e ferroso, morbido e facilmente scavabile durante la stagione dei monsoni, durissimo nella stagione secca, non avevano neanche bisogno di essere rinforzati. Seccandosi, le pareti diventavano resistenti come calcestruzzo. Resistettero a tre anni di bombardamenti con i B52 e al più massiccio uso di defolianti per consentire di individuarne il camuffamento e il tracciato. Ospitavano, oltre a intere divisioni di soldati, anche i contadini dei villaggi bombardati. Con alloggi, cucine, ospedali, depositi e fabbriche di armi, e persino teatri e orchestre per la ricreazione dei soldati. Quei tunnel furono determinanti nell’offensiva del Tet del 1968 e poi per portare alla vittoria il Nord, anche se costarono un prezzo altissimo ai Vietcong (il Fronte del sud, considerato sacrificabile da Hanoi). Grazie ai tunnel, prima ancora, Giap aveva accerchiato e sconfitto i francesi a Dien Bien Phu. Riandatevi a vedere le foto, scattate dai tedeschi, alcune dai resistenti, durante la rivolta del Ghetto nel 1943, e poi nell’insurrezione di Varsavia del 1944. Sembra un déja vu di Gaza: palazzi distrutti, strade ingombre di macerie, profughi forzati (i nazisti avevano sgomberato, cercandoli casa per casa, mezzo milione di ebrei dal solo ghetto). Gli insorti avevano fatto ampio uso del labirintico sistema fognario costruito da un generale russo a fine Ottocento. Erano stati sterminati. Ma avevano impegnato ingenti forze germaniche per molte settimane. Oltre a riportare un’indelebile vittoria morale.

Nella guerra del Pacifico i marines avevano avuto perdite insostenibili per conquistare la rete di caverne e tunnel in cui erano asserragliati i giapponesi. Fu tra le ragioni che a Washington addussero poi per il ricorso alle atomiche. I sovietici avevano inventato tecniche atroci per svuotare i karez sotterranei in cui si nascondevano i mujaheddin afghani. Lanciafiamme ed esplosioni “stereofoniche”. Ma poi furono costretti ad andarsene, anzi persero l’Unione sovietica. I Moab, Massive Ordnance Air Blast, o Madre di tutte le Bombe, sganciati sul complesso di caverne di Tora Bora non erano bastati a beccare Osama bin Laden, che fu ucciso solo molti anni dopo, in Pakistan. Le stesse caverne furono poi rioccupate dall’Isis (Daesh in arabo). Di tunnel e cunicoli avrebbe fatto ampio uso l’Isis assediata nel 2016 a Mosul. Alle forze americane e irachene ci sarebbero voluti 9 mesi, e bombardamenti a tappeto anche sui civili, per sloggiarli. Oltre due anni per eliminarli. L’assedio del battaglione ucraino Azov attestato nei labirintici sotterranei dell’acciaieria Azovstal si era concluso con un compromesso, una resa molto condizionata, piuttosto che con un assalto frontale che avrebbe decimato gli assalitori russi

I tunnel si difendono o si conquistano, resistono o si perdono, costringono allo sperpero di enormi risorse per chi li costruisce, come per chi li attacca. Ma paradossalmente “raramente fanno vincere o perdere le guerre”, il giudizio dell’israeliana Daphné Richemond-Barak, la massima esperta accademica sulla materia, autrice di un enciclopedico Underground Warfare e di numerosi saggi. Sul perché nei tunnel ci siamo tutti avevano già detto tutto Kafka e Dürrenmatt.

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