Be’eri (Foto LaPresse) 

il reportage

Come far tornare la vita nei kibbutz e convivere con Gaza

Fabiana Magrì

Tra le macerie di Be'eri si piangono ancora le vittime e ci si preoccupa per il futuro: "La sfida sarà convincere le persone che tornare qui è sicuro", dicono gli abitanti. Ma è anche nella Striscia che qualcosa rispetto al passato dovrà cambiare 

Kibbutz Be’eri. Le foto delle macerie, quelle di una guerra, di un’inondazione o di un terremoto, alla fine sono tutte, tristemente e dolorosamente, uguali. Case distrutte e incendiate, giocattoli abbandonati, tappeti di pallottole sparate, muri perforati, vetri infranti, porte divelte, scie di sangue rappreso sui pavimenti. Tra le macerie di Be’eri nel sud di Israele, da quel maledetto 7 ottobre, si aggira un fantasma in carne e ossa. Rami Gold, veterano 70enne della guerra del Kippur, sembra schiacciato sotto il peso del casco e del giubbotto antiproiettili. E ancora di più, sotto il peso del trauma del sopravvissuto. “Il problema non sarà ricostruire le case. Quelle sono solo cemento, metallo e intonaco”, dice quando gli si chiede cosa ne sarà del futuro di Be’eri. “Non ho nemmeno iniziato a pensarci. Ma so che la sfida sarà convincere le persone che tornare qui è sicuro.” Con i suoi vialetti curati, le palme, i prati, i rifugi in cemento decorati con i murales per renderli più rassicuranti per i bambini, Be’eri, a una manciata di chilometri dalla Striscia di Gaza, era noto come il più bel kibbutz di Israele. E uno dei più fiorenti, grazie al business del riciclo dei rifiuti e alla storica tipografia Dfus Beeri (fondata nel 1950) che stampava libretti di assegni, documenti d’identità e carte di credito. 

Gold si dice “irresponsabilmente ottimista”, anche se sul volto il sudore intorno agli occhi maschera le lacrime. “Alcune famiglie non hanno solo perso le case. Hanno perso la loro vita. Solo oggi, al cimitero temporaneo allestito per l’emergenza, sono stati sepolti 5 membri di una stessa famiglia.” Non sono solo i vetri delle costruzioni a essersi infranti in mille pezzi, al kibbutz Be’eri come Kfar Aza e nelle oltre venti comunità agricole intorno alla Striscia che il 7 ottobre sono state violentate dai terroristi di Hamas. Ci sono anche i sogni di una pace costruita e difesa dai singoli individui, da un lato e dall’altro della barriera. La cognata di Gold faceva parte di Women for Peace, l’organizzazione di donne israeliane e palestinesi che insieme lavorano sulla coesistenza. Due volte alla settimana andavano al valico di Erez per prendere i malati e portarli con le loro auto private negli ospedali israeliani, per ricevere le cure. “Ora è morta. Una donna di 70 anni. Per nessuna ragione”. Chiede, Gold, per poter convincere la sua gente a tornare in quella cintura nel sud del paese, che il governo dia loro garanzie che una cosa così non accadrà più. “Non ho paura di Hamas - spiega -. Ho paura che il nostro paese, anche questa volta, non picchi abbastanza duro. O trovano un modo per vivere con noi. O non potranno restare qui. Loro devono essere puniti e noi dobbiamo tornare.”

E allora il problema vero è che qualcosa dall’altra parte, nella Striscia di Gaza, deve cambiare. Non è facile volare con lo sguardo sopra il sangue ancora fresco di migliaia di israeliani. Mentre i morti non sono ancora stati né seppelliti né identificati tutti. E mentre almeno 200 ostaggi, vivi e morti, sono nelle mani di Hamas. “Israele non dovrebbe occupare Gaza e non dovrebbe governarla. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno - ha detto l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Eyal Hulata in un briefing con i media, rispondendo alla domanda del Foglio - è un coinvolgimento diretto di Israele.” “Smantellare completamente Hamas è un obiettivo ambizioso che richiederà pazienza, perseveranza, e purtroppo anche “boots on the ground”. C’è quindi tempo per riflettere e prepararsi al “day after””, sostiene l’imprenditore high tech Roy Hessel, figlio dell’ex vice capo del Mossad Yoram Hessel. “Quello che abbiamo visto a Gaza con Hamas e con Abu Mazen in Giudea e Samaria (Cisgiordania, NdR), è che la leadership o ha perpetrato attacchi terroristici contro Israele oppure è stata impotente e inefficace nell’impedirli”, premette. “Pur sostenendo l’autonomia delle persone e il diritto all’autogoverno, in nessuna condizione possiamo affidare alla leadership palestinese il controllo di Gaza”. E sull’opzione di una forza politica internazionale, Hessel vede di buon occhio “una combinazione di Nato, Europa e Nazioni Unite che impedisca lo sviluppo di organizzazioni terroristiche, tunnel del terrore, missili, attentati suicidi e lanci di razzi, per secoli a venire. Ma la responsabilità della sicurezza deve restare a Israele, che non può affidare a nessun'altra entità la salvezza dei suoi abitanti.” Per lo storico Eyal Zisser, vicerettore dell’Università di Tel Aviv, “l’unica alternativa è tra l’occupazione diretta della Striscia da parte di Israele o affidarne il governo all’autorità palestinese.” Però è certo che “il caos non è un’opzione.” 

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