Soldati accanto ai corpi degli israeliani uccisi dai militanti di Hamas nel kibbutz Kfar Azza martedì 10 ottobre 2023 (AP Photo/Ohad Zwigenberg) 

i vivi e i morti

Israele promette di riportare a casa ogni figlio. Tra i sacchi neri del centro di Medicina forense

Fabiana Magrì

"Continueremo finché non avremo identificato ogni corpo, ogni israeliano, civile o militare. Speriamo di portare a casa ciascuno di loro e di poter dare loro sepoltura” ci dice la direttrice del laboratorio per l’analisi del Dna al civico 67 di viale Ben-Zvi a Tel Aviv. Il fronte degli ostaggi e la macchina dei negoziatori, che si è messa in moto

Tel Aviv. Eviatar Moshe Kipnis, l’italiano israeliano scomparso dal kibbutz Be’eri, ieri sera è stato identificato tra i morti nell’attacco di Hamas, attraverso l’analisi del Dna. Israele ha messo in campo ogni sforzo per “portare a casa” ogni suo figlio. E questo significa i vivi, che siano civili o soldati in ostaggio nelle mani delle fazioni palestinesi dentro la Striscia di Gaza. Ma significa anche individuare che fine hanno fatto i dispersi, se sono tra i prigionieri da liberare o tra i cadaveri non ancora identificati. In ogni caso è una corsa contro il tempo. E la società civile è mobilitata.

  
Al momento, per oltre 500 dei 1.400 morti israeliani, si è resa necessaria una procedura di identificazione complessa e di indagini da parte dei medici patologi del centro nazionale di medicina legale. Al civico 67 di viale Ben-Zvi a Tel Aviv non si interrompe, da oltre una settimana, il via vai dei furgoni con la base militare di Shura, primo punto di raccolta per i cadaveri e per i loro resti. Trasportano i sacchi, ne sono arrivati oltre 950, in cui i volontari di Zaka ripongono tutto ciò che proviene dalle scene dei massacri di massa eseguiti con ferocia e brutalità da Hamas nel sud del paese. Sono ancora da identificare quasi 300 corpi. E sono i casi più difficili. Quelli carbonizzati o in stato di avanzata decomposizione o, ancora, quelli per cui esistono dati ante mortem con cui fare il confronto. “Temo che ci saranno casi di persone che non riusciremo mai a identificare”, ammette il direttore del centro di Medicina forense Chen Kugel.

  

Un orsacchiotto tra le macerie della casa Gat, dove cinque persone sono state rapite e tre sono ancora disperse (Foto di Alexi J. Rosenfeld/Getty Images) 
   

A volte nei sacchi si scoprono resti di ossa che, si capisce poi, appartengono a più di una persona. La cenere rinvenuta nella trachea di diversi cadaveri racconta di incendi appiccati alle case con persone ancora vive all’interno. “Non ci sono prove, per adesso, di persone arse vive come torce umane”, precisa il direttore del centro di Medicina forense. Dettagli che gli anatomopatologi rendono noti per spiegare come si svolgono le indagini. Perché, dicono, per adesso le famiglie sotto choc chiedono solo di sapere se il proprio caro che risulta disperso sia vivo o morto. Ma verrà il momento, assicurano per esperienza, in cui chi ha perso qualcuno vorrà sapere come è successo. Gli esempi sono tantissimi. “Dalla combinazione dell’osservazione dei resti di due mani con due fori di proiettile con quelli di un frammento di cranio con tracce di metallo – spiega Kugel – possiamo immaginare che la persona abbia istintivamente alzato le mani sul volto nel tentativo di proteggersi, mentre l’aggressore gli sparava un colpo alla testa”. E sembra incredibile che le storie riescano a emergere dall’analisi di frammenti minuscoli, irriconoscibili, carbonizzati. Senza mezzi come Tac e analisi del Dna, non sarebbe possibile. “Abbiamo finito di analizzare tutti i campioni post mortem, almeno quelli da cui è stato possibile ottenere un profilo genetico. Ci sono ancora campioni di ossa o di tessuti pesantemente bruciati o degradati che richiedono tentativi ulteriori”, dice al Foglio Nurit Bublil, la direttrice del laboratorio per l’analisi del Dna al primo piano. “Ma continueremo finché non avremo identificato ogni corpo, ogni israeliano, civile o militare. Ci vorrà altro tempo. Ci sono alcuni casi molto più difficili di altri. Speriamo – ribadisce – di portare a casa ciascuno di loro e di poter dare loro sepoltura”. 

   
Sul fronte degli ostaggi, ora che Hamas ha fatto il primo passo pubblicando il video della 21enne Mia Schem, si è messa in moto la macchina dei negoziatori. La risposta, ieri mattina, è arrivata sotto forma di conferenza stampa tenuta dalla famiglia della ragazza – la madre Keren Sherf Shem e i fratelli Eli e Ori – con il capo del team medico del comitato delle famiglie Haim Levin e uno dei negoziatori, l’esperto ex capo dello Shin Bet, Ya’akov Peri. Il messaggio a Hamas, veicolato per mezzo della stampa internazionale, si può sintetizzare in alcuni punti. L’attribuzione della piena responsabilità a Hamas per la salute degli ostaggi israeliani, la richiesta di informazioni sul loro stato di salute e la richiesta di liberazione di tutti. Ora la fazione palestinese nella Striscia dovrà comunicare il suo prezzo. Che sarà alto, di questo è certo Peri, “ma non hanno ancora avanzato richieste”. Il negoziatore aggiunge che il video di Mia risale probabilmente alla metà della scorsa settimana. Alla richiesta delle basi sulle quali si fonderebbe l’affermazione, risponde che “sono valutazioni”.

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