L'editoriale del direttore

I complici di Hamas sono anche coloro che non hanno il coraggio di dire “mai più”

Claudio Cerasa

Difendere Israele significa anche difendere chi denuncia la strategia omicida di Hamas verso la sua popolazione. La colpa per il sacrificio intenzionale di palestinesi innocenti va soprattutto al gruppo terroristico

Che cosa vuol dire mai più? Douglas J. Feith è un repubblicano da leccarsi i baffi. È stato sottosegretario alla Difesa, in America, ai tempi della presidenza di George W. Bush, dal luglio 2001 all’agosto 2005, e ieri ha scritto un articolo formidabile per mettere di fronte agli occhi dell’opinione pubblica una verità dirompente. Dura da ammettere ma difficile da negare. E la verità è questa: “Coloro che, per quanto ben intenzionati, incolpano oggi Israele sono complici dei crimini di guerra di Hamas”. Feith, con buoni argomenti, dice che difendere Israele oggi significa difendere non solo il suo diritto a esistere e a resistere, ma significa anche difendere chi denuncia la strategia omicida di Hamas verso la sua popolazione. E per capire il senso di questa affermazione, Feith invita a ragionare su due elementi.

Il primo riguarda le parole consegnate qualche giorno fa dall’alto funzionario di Hamas Ali Baraka, che in un’intervista trasmessa su Russia Today – durante la quale ha tra l’altro affermato che “i nostri alleati sono quelli che ci sostengono con armi e denaro, come l’Iran” e durante la quale ha tra l’altro riconosciuto che “la Russia simpatizza con Hamas ed è soddisfatta della guerra contro Israele perché sta allentando la pressione americana per quanto riguarda la guerra in Ucraina” – ha pronunciato una frase rivelatrice. Questa: “Gli israeliani sono noti per amare la vita. Noi, invece, sacrifichiamo noi stessi. Consideriamo i nostri morti come martiri. La cosa che ogni palestinese desidera di più è essere martirizzato per amore di Allah, difendendo la sua terra”. L’affermazione dell’alto funzionario di Hamas aiuta a mettere a fuoco un tema che tornerà drammaticamente attuale nelle prossime ore.

Quella di Hamas, dice Feith, non è una semplice strategia dello scudo umano: usiamo i civili come ostaggi per disincentivare la reazione di Israele. È qualcosa di più. E’ una strategia che non potremmo definire così: “Sacrificio umano”. “Non vi sono precedenti nella storia moderna di un partito – dice – che sceglie di adottare una strategia di guerra finalizzata a massimizzare le morti civili”. Per raggiungere i suoi obiettivi, scrive Feith, per alimentare l’odio nei confronti di Israele, per delegittimare ogni reazione difensiva di Israele, per indurre i leader sauditi ad abbandonare i loro piani per normalizzare le relazioni con Israele, Hamas ha deciso di fare di tutto affinché la sua guerra danneggi e uccida il numero più alto possibile di palestinesi a Gaza. Succede così che Hamas scelga di immagazzinare munizioni nelle scuole. Scelga di collocare lanciamissili nei pressi delle moschee. Scelga di istituire centri di comando negli ospedali. E scelga scientificamente di basare le sue operazioni in quartieri civili densamente popolati. “I leader di Hamas – scrive ancora Feith – collocano le loro risorse in edifici civili non nella speranza che Israele trattenga il fuoco, ma nel freddo calcolo che la ritorsione causerà un danno terribile ai civili palestinesi, nonostante gli sforzi straordinari compiuti dall’esercito israeliano per evitarlo”.

 

Per evitare danni collaterali, Israele ha avvertito regolarmente sugli attacchi, anche se ciò diminuiva le possibilità di successo. Ha informato gli abitanti di Gaza in vari quartieri che presto ci sarebbero stati strike aerei. Ha invitato gli abitanti di Gaza a spostarsi verso le aree sicure designate, a sud del fiume Wadi Gaza. E a fronte di questi inviti, seppure difficoltosi vista la densità della popolazione che si trova a Gaza, le autorità di Hamas hanno chiesto ai residenti nel nord del territorio di “rimanere saldi nelle vostre case e di resistere a questa disgustosa guerra psicologica intrapresa dall’occupazione”. La colpa per il sacrificio intenzionale di palestinesi innocenti, dice in conclusione Feith, va innanzitutto e soprattutto a Hamas. Ma anche a tutti coloro che nel mondo esterno si faranno abbindolare da questa strategia e si rifiuteranno di smascherarla. Arrivati a questo punto del ragionamento ci si potrebbe, comprensibilmente, porre qualche domanda. Per esempio: siamo davvero sicuri che una reazione di Israele sia inevitabile? E ancora: siamo davvero sicuri che una reazione di Israele sia auspicabile? E infine: siamo davvero certi che una reazione di Israele sia  giusta? Bari Weiss, famosa giornalista liberal già al New York Times, ha posto questa domanda a Condoleezza Rice, ex segretario di stato degli Stati Uniti ai tempi dell’11 settembre, e le sue risposte meritano una riflessione ulteriore. La priorità del mondo libero, e non solo di Israele, dice Rice, è “cercare, in modo unitario, il più rapidamente possibile, di assicurarsi che Hamas e il Jihad islamica palestinese non possano ripetere una cosa del genere”. Condoleezza Rice, che l’11 settembre lo ha vissuto sulla sua pelle, aggiunge un dettaglio ulteriore. E dice che, dal suo punto di vista, quello che è successo in Israele è persino peggiore di quello che hanno subito gli Stati Uniti ai tempi delle Torri gemelle, perché “è come se qualcuno fosse andato nei sobborghi di Buffalo e avesse cominciato a massacrare la gente”. E se c’è qualcuno che si chiede se Israele meriti o no il sostegno degli Stati Uniti, oggi, dovrebbe fare una riflessione, dice ancora Rice. Dovrebbe pensare cosa potrebbe succedere se gli Stati Uniti non avessero dato il sostegno all’Ucraina. Dovrebbero pensare a cosa potrebbe fare  Xi Jinping nel Mar cinese meridionale o a Taiwan. Dovrebbero pensare a cosa potrebbe fare Hamas se i terroristi dovessero capire che le loro azioni omicide potrebbero restare impunite. Quello che è successo in Israele, dice ancora Rice, è stato un attacco all’America, e a tutto il mondo libero, perché i terroristi hanno preso di mira non solo i nostri alleati ma anche i nostri valori. Per questo oggi per difendere Israele occorre fare di tutto per poter dire due parole semplici: mai più. E per questo chi oggi sceglie di mettere in discussione il diritto di Israele a dire “mai più” sta facendo una scelta precisa: chiudere gli occhi di fronte alla strategia omicida portata avanti da Hamas non solo nei confronti di Israele ma anche nei confronti della sua popolazione. Mai più, appunto.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.