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Nelle galere di Putin

Così lo stato russo combatte chi protesta. Il report di Memorial 

Giulia De Florio

I 684 prigionieri politici, i loro “reati”, le condanne esorbitanti e i processi infiniti. Un documento rivela tutte le statistiche legate all’attività di repressione di ogni forma di dissenso e protesta in Russia

Il 24 agosto, a un anno e mezzo esatto dall’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, il progetto “Supporto ai prigionieri politici. Memorial” in collaborazione con OVD-Info ha pubblicato un breve report dal titolo eloquente: “Un anno e mezzo dall’invasione su larga scala della Russia in Ucraina. Come lo stato russo combatte chi protesta?”. Il documento contiene statistiche legate all’attività di repressione di ogni forma di dissenso e protesta, con particolare riferimento ai casi di persecuzione motivati da posizioni di denuncia e opposizione dei cittadini russi alla guerra in corso. Secondo l’infografica, attualmente sono 684 le persone che subiscono una qualche forma di persecuzione giudiziaria da parte del governo russo: chi è in attesa di giudizio, chi in libertà su condizionale in carcere preventivo, chi sconta già una condanna in una prigione o colonia penale della Federazione russa.

Le schede forniscono informazioni su età, sesso, professione delle vittime.

Ci sono 542 uomini e 142 donne, le quali, tuttavia, sono sottoposte a rischi di violenza maggiori, durante le fasi dell’istruttoria (pressing psicologico, minacce) e in reclusione. Non si parla nello specifico di transgender, ma è legittimo pensare che abbiano ancora più probabilità di subire abusi di ufficio o atti criminali da parte dell’amministrazione carceraria, in un paese in cui le persone Lgbt sono sistematicamente discriminate. L’età media è rispettivamente di 37 anni per gli uomini e 36 per le donne, ma l’anagrafica spazia dai 78 ai 15 anni. A livello professionale non stupisce che a essere più bersagliate siano le persone che lavorano nelle ong, nel giornalismo, nella politica e nella cultura. Chi difende i diritti umani, chi informa, chi propone riforme o modelli statali diversi da quello ufficiale e chi mette la propria arte al servizio della società è il nemico numero uno di ogni dittatura. La Russia putiniana non fa eccezione.

Dal punto di vista geografico i “centri di dissenso” sono Mosca e San Pietroburgo, ma colpisce il numero elevato di inchieste nelle repubbliche autonome del Dagestan e del Tatarstan. Non mancano, poi, esempi in Buriazia e Inguscezia e in moltissime altre regioni della Federazione, 78 per la precisione.

Infine, la statistica ricorda gli articoli del Codice penale russo su cui fanno maggiormente affidamento i procuratori. Alcuni sono stati emendati ad hoc dopo il 24 febbraio, come il 207.3 che riguarda la “pubblica diffusione di informazioni deliberatamente false sulle forze armate della Federazione russa”: Ilya Jashin, che sta scontando una condanna di otto anni e mezzo in un carcere di Mosca, e Maksim Kats, di recente condannato in contumacia a otto anni di prigione, sono soltanto due delle 229 persone penalmente perseguite per aver denunciato i massacri di Bucha o aver definito “guerra” quella che il regime impone di chiamare “operazione militare speciale”.

Seguono, in termini quantitativi, le imputazioni ai sensi degli articoli 205 e 205.2 legati alle attività terroristiche che non rappresentano una novità del 2022 – fu questo il capo di imputazione, per esempio, di Maksim Smyshljaev, condannato l’11 agosto del 2017 a dieci anni di colonia penale a regime duro. Il “discredito dell’esercito” (art. 280.3) è l’altra punta di diamante del sistema repressivo russo. Ci sono poi una serie di accuse non legate direttamente al contesto bellico, mirate a tenere a bada persone sospette, spesso militanti in gruppi politici (primi fra tutti anarchici e socialisti) che possono rappresentare una minaccia allo status quo. Così nel paese fioccano accuse di “vandalismo” – che si tratti di scritte antimilitariste di street artist o finestre rotte nei centri di reclutamento – punite con pene esemplari.

I dati non sono completi e vengono aggiornati di continuo, letteralmente giorno per giorno: secondo i dati di OBD-info, questa settimana sono previste 80 udienze per casi giudiziari a sfondo politico. A preoccupare i centri di difesa dei diritti umani è il numero crescente di inchieste per alto tradimento: nel solo mese di aprile 2023 ne sono state aperte otto. Il direttore del progetto di tutela dei diritti umani “Pervyj Otdel”, Dmitri Zair-Bek, ha sottolineato che simili impennate si erano già riscontrate dopo la guerra in Georgia del 2008 e all’inizio di quella in Donbas nel 2014. In occidente come in Russia ha fatto scalpore la condanna a ventidue anni comminata nel settembre scorso al giornalista Ivan Safronov, classe 1990, in quello che Micol Flammini ha definito un “processo per giornalismo”.

Un altro numero da capogiro è quello pronunciato il 4 agosto contro Aleksei Navalny: 19 anni a conclusione del processo (ormai è difficile tenere il conto di quanti ne ha subiti il più popolare oppositore del regime) per “organizzazione estremista” (e altri capi d’accusa minori) nel quale è stato coinvolto anche Daniel Cholodny, ex direttore tecnico del canale YouTube “Navalny Live”, condannato a otto anni di colonia penale. Ma le “punizioni esemplari”, come quella di Safronov e Navalny – è opportuno ricordare anche i 25 anni al giornalista e politico Vladimir Kara-Murza, arrestato nel 2022 e giudicato colpevole di alto tradimento il 17 aprile di quest’anno – sono soltanto una delle forme che assume l’arbitrio assoluto ormai salito sullo scranno dei tribunali russi.

Ci sono i “processi infiniti”, come quelli intentati contro Aleksandra Skochilenko, in custodia dall’11 aprile 2022, Viktorija Petrova, in stato di reclusione dal 6 maggio 2022, e Vyacheslav Korolev, dal 12 luglio 2022 in un carcere preventivo di Kolpino, nei pressi di San Pietroburgo in attesa del verdetto finale. Certo, c’è chi può obiettare che se l’alternativa è la condanna in via definitiva a un numero imprecisato di anni di reclusione, meglio le estenuanti sedute in tribunale, le convocazioni di esperti, la cancellazione – a volte immotivata – delle udienze. Ma tali vessazioni sono la prova di una giustizia lasciata spesso in balia dei capricci della magistratura, sempre più asservita ai desiderata del potere politico.

Sembra essere tornata in auge anche un’altra pratica antica, la ricerca di nuove accuse allo scadere della prima condanna di un prigioniero – quella che in Unione Sovietica generava i cosiddetti povtornik, cioè chi “ripeteva” (dal verbo povtorit’) un periodo di reclusione. E’ quanto accaduto proprio in questi giorni al matematico Azat Miftachov, dottorando dell’Università statale di Mosca, che aveva trascorso gli ultimi quattro anni in un carcere di Omutninsk (regione di Kirov) ed è stato rilasciato il 4 settembre. Mentre era ancora dietro le sbarre le autorità russe hanno avviato contro di lui un nuovo procedimento penale ai sensi dell’articolo 205.2 (“incitamento al terrorismo”). L’accusa prevede la pena massima di una multa da 100 mila a 500 mila rubli o una pena detentiva da due a cinque anni. Come se non bastasse negli ultimi due mesi Miftachov era stato oggetto di un’escalation di ritorsioni da parte dell’amministrazione della colonia. Ma il peggio è arrivato all’uscita dalla prigione: ad aspettarlo c’erano gli agenti dell’Fsb che lo hanno subito arrestato e portato in un carcere di Kirov.

In Russia la persecuzione giudiziaria è l’ultimo stadio dell’assalto contro le libertà fondamentali. La legge sugli “agenti stranieri” continua a imperversare, costringendo organizzazioni storiche a chiudere i battenti (tra le ultime, il Centro Sacharov, Agora, Sova, il Gruppo Helsinki di Mosca) o a lavorare in condizioni di estrema difficoltà, come accade per il Centro Levada, Golos, e molte altre. Da fine 2020 anche le personalità fisiche possono ricevere il marchio infame che le costringe a lasciare il paese o a continuare la propria attività clandestinamente. Venerdì scorso è toccato, tra gli altri, a Dmitri Muratov, premio Nobel per la pace 2021, la settimana prima a Linor Goralik, scrittrice, poeta, saggista, imprenditrice e figura di spicco nel panorama culturale in lingua russa. E’ ormai diffusa la battuta per cui essere “agente straniero” sia diventato un segno di decenza.

Come si legge nel report di fine anno del Centro per la difesa dei diritti umani Memorial, “le repressioni a sfondo politico in Russia nel 2022 sono, ovviamente, legate a filo doppio alla guerra. Da un lato, rispecchiano gli sforzi delle autorità per garantire il necessario livello di controllo sulla società, molto più alto rispetto al passato, e dall’altro sono una conseguenza dell’inasprimento della politica interna dovuta alla situazione di guerra”.

Quando si ha a che fare con i numeri viene sempre naturale provare a metterli in scala: 600 prigionieri politici in Russia (e oltre 1.500 in Bielorussia, non dimentichiamolo) sono tanti o pochi? Qualche tempo fa, durante un’intensa intervista, la giornalista Ekaterina Gordeeva ha rivolto questa domanda a Evgenia Kara-Murza, moglie di Vladimir Kara-Murza, appena trasferito nel carcere di Omsk, in Siberia, a 2.750 km da Mosca. La risposta è stata immediata e univoca: “Katja, uno è già troppo”. 

Il 31 agosto, alla Nobel Peace Conference 2023: Human Rights Heroes, organizzata dalla Commissione del Nobel a sostegno dei diritti umani, Jan Rachinskij, presidente di Memorial, ha ribadito alcune semplici ma fondamentali verità: “L’essere umano non è materiale sacrificabile per raggiungere gli obiettivi dello stato, come le attuali autorità russe sembrano credere. L’essere umano è il padrone dello stato e il suo artefice. Non è lo stato che deve stabilire come devono vivere le persone, sono le persone a decidere come lo stato deve comportarsi. Questi non sono astratti ideali umanistici, è l’abc per la sopravvivenza di una società”.

In Russia 684 persone ce lo ricordano tutti i giorni.

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