le crepe dei brics

Tra il G20 e l'assemblea dell'Onu, come si muove l'unità pro Ucraina

Vittorio Emanuele Parsi

Per l'occidente, puntare sull’India è una buona mossa contro la Cina. Le divergenze e gli effetti sulla causa di Kyiv

Nella settimana circa che separa la conclusione del G20 indiano e la sessione plenaria dell’Assemblea generale dell’Onu, qualche considerazione la possiamo provare a svolgere, anche alla luce del vertice dei Brics che ha preceduto di qualche giorno il G20. La questione più evidente è quella di quanto abbia guadagnato (o perduto) al di fuori del nucleo delle democrazie occidentali il sostegno alla causa ucraina. La sensazione è che la capacità occidentale di richiamare la comunità politica internazionale a un minimo di decenza e di coerenza rispetto ai princìpi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite continui a dimostrarsi debole. L’anodino comunicato finale del G20, nel quale non si cita mai apertamente una guerra d’aggressione che è in corso da 18 mesi, è lo specchio realistico della situazione.

 

Quel comunicato è stato il frutto di un compromesso che mirava a uno scopo politico maggiore: evitare che il vertice presieduto dal premier indiano Narendra Modi potesse concludersi, anche formalmente, con un fallimento. Le premesse c’erano tutte, anche perché Pechino e Mosca, in questo spalleggiate da Brasilia, hanno giocato fino in fondo questa carta, costringendo  Modi ad ammorbidire la posizione indiana sull’invasione dell’Ucraina che si era fatta via via meno condiscendente. E’ con questa consapevolezza che il presidente americano Joe Biden ha ingoiato il rospo e fatto buon viso a cattivo gioco: non voleva essere lasciato con il cerino in mano di fronte alla prospettiva di un’India delusa nelle sue ambizioni di uno status internazionale in crescita.

 

Gli Stati Uniti, e sempre più anche l’Europa finalmente, si rendono conto che dietro alla prosopopea – si prenda la dichiarazione di Modi “abbiamo fatto la storia”: anche meno, anche meno – e alla loro ostentazione di unità economico-politica esistono ampie divergenze e divisioni tra i paesi emergenti. In particolare, la ormai scoperta ambizione cinese di dirottare qualunque istituzione o occasione internazionale a favore dei suoi specifici interessi nazionali e delle sue malcelate ambizioni egemoniche irrita un grande paese come l’India. L’India ha dalla sua una popolazione già superiore a quella cinese e decisamente più giovane e vanta rapporti non conflittuali con la più parte dei grandi attori della politica internazionale. Paradossalmente, Pakistan a parte (che al di là della dimensione nucleare conta assai poco nel mondo), è proprio con la Cina che l’India ha contenziosi territoriali aperti, i quali peraltro in maniera ricorrente sfociano in dispute militarizzate (l’ultima sul confine tibetano risale al dicembre 2022). 

 

Significativamente, l’India sta prendendo molto più sul serio il coordinamento con gli altri paesi Quad (America, Australia e Giappone) proprio in funzione di bilanciamento del crescente ingombro cinese. E’ su questo sfondo che va letta la visita del presidente Biden a Hanoi, sulla strada di ritorno da Delhi a Washington. A fronte delle arroganti pretese cinesi di considerare cosa propria l’intero Mar cinese, Vietnam, Filippine, Indonesia e Malesia vanno avvicinandosi (o riavvicinandosi) con rapidità agli Stati Uniti. La maggiore consapevolezza indiana di essere anche (e soprattutto in prospettiva) un paese marittimo (l’India ricorda in questo l’Italia, che ha sviluppato con grande fatica e ritardo una simile coscienza) la fa guardare con irritazione alla postura di Pechino e all’impressionante riarmo navale che l’accompagna.

 

Convergenza possibile, quindi tra l’India e l’occidente, che però non significa allineamento scontato. Perché il passato coloniale pesa e nel caso dell’India forse più che in altri casi, perché il paese, prima della progressiva inclusione nell’impero britannico, è stato un consistente soggetto politico, economico e istituzionale, oltre che culturale. Ecco che allora la prospettiva di fare dell’India un hub per una maggiore integrazione tra le economie europee, del Mediterraneo e del Golfo va nella giusta direzione e rappresenta un siluro micidiale al sogno cinese della nuova via della seta. Come credo risulti chiaro, il primo progetto mira a integrare l’India nel cuore dell’economia sviluppata mondiale, valorizzando la natura democratica (e quindi affidabile e non minacciosa) del regime vigente a Delhi. Il secondo invece aspira a fare di Pechino il centro del “nuovo mondo”, blindandone per via economico-istituzionale la leadership politica e decretando la fine della “superiorità/preferibilità etica” delle democrazie. Affinché la prima alternativa si realizzi, però, è necessario che l’India venga trattata da “pari”, riconoscendone la piena integrazione nel novero delle democrazie.

 

E’ inutile nascondere che si tratterebbe di una apertura di credito “generosa”, rispetto ai non pochi limiti e ai margini di miglioramento della democrazia indiana. Ma si tratterebbe comunque di molto meno di quanto inopinatamente concesso alla Cina ai tempi del suo ingresso nella Wto, una fiducia molto mal  riposta e peggio ripagata. Il tema di compattare le democrazie del “Sud emergente” con quelle del “ricco Nord” sarà centrale per il futuro dell’ordine internazionale e per la tutela dei princìpi liberali sui quali si fonda. Le gravissime dichiarazioni del presidente Lula rispetto al “salvacondotto” che intenderebbe garantire a Vladimir Putin per il vertice del G20 del prossimo anno in Brasile stanno lì a ricordarcelo fin troppo bene.

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