Foto di Joshua Lott per il Washington Post

linea editoriale

L'editore del magazine Atlanta dice: basta, troppo wokismo. Rivolta in redazione

Giulio Silvano

Diverse figure di rilievo hanno lasciato la rivista in seguito alle pressioni dei proprietari sulla linea editoriale. "È interferenza alla libertà di espressione" sostengono i dimissionari

Per incapacità dei democratici di gestire il fenomeno, il wokismo scatenato è diventata l’arma preferita dai repubblicani per far vedere che i progressisti sono tenuti al cappio da una minoranza di forsennati che basano  la loro esistenza sui sensi di colpa coloniali, sull’auto-identificazione di genere e su una miriade di nuovi pronomi. Da rileggersi “La cultura del piagnisteo” di Robert Hughes per capire come si è passati dal marxismo nelle università ai trigger warning. Il governatore della Florida, Ron DeSantis, sull’antiwokismo ci ha costruito sopra una campagna. E seppur fallimentare è comunque al secondo posto nei sondaggi delle primarie di partito, sotto Donald Trump avvantaggiato dai guai giudiziari. 

Ma la cultura woke non ha solamente creato una maggiore frattura polarizzante nel popolo americano, sta anche distruggendo alcune istituzioni culturali come l’amato magazine Atlanta. Nato nel 1961 dalla camera di commercio locale per mostrare le bellezze della città, nel 2017 è stato acquistato dal gruppo Hour Media, che ha iniziato a collezionare diversi magazine dedicati alle città: Los Angeles, Cincinnati, Grand Rapids, Michigan Blue, Florida Design. Lifestyle, inchieste, sport, politica locale, servizi sulla gentrificazione e notizie sui mercatini vintage, “i migliori ristoranti dell’anno” e altre classifiche: queste riviste sono  guide costantemente aggiornate della città di riferimento e spesso ottimi laboratori di giornalismo. Atlanta, tra i più apprezzati, ha visto di colpo la sua caporedattrice annunciare la pensione, e tre membri dello staff editoriale dimettersi da un giorno all’altro per via delle presunte pressioni dell’azienda rispetto ai temi woke. Va bene la copertina con una drag queen afroamericana con la parrucca rosa che mangia i pancake, si saranno detti i proprietari della rivista, ma è davvero necessario avere così tanti pezzi su personalità trans, è davvero necessario sottomettersi alle scelte dei pronomi più fantasiosi degli intervistati, perdendo la natura della rivista? Già qualche anno fa, per evitare troppe polemiche, la rivista aveva accettato le critiche sul numero insufficiente di redattori neri – la città della Georgia è una città prevalentemente afroamericana – e aveva inglobato nuove leve che raccontassero di quartieri e gruppi meno coperti, dei “più grandi chef neri di Atlanta” e di quanto sia più facile nel sud uccidere gli afroamericani e passarla liscia, che sia il nuovo KKK o la polizia. Fino a qui tutto bene. Ma la paura di Hour Media è che, dopo anni passati a fidelizzare i lettori della Georgia, bianchi e neri che siano, si rischia di perderne troppi occupandosi di temi che hanno meno a che fare con la città e più con le guerre culturali. Perché una rivista che dà agli abitanti del Peach State la notizia dell’apertura di un nuovo negozio di cioccolatini a Suwanee deve diventare il megafono di un’ideologia confusa e minoritaria? Perché il proprietario di un magazine non dovrebbe avere una voce sulla linea editoriale, soprattutto se pensa che una deriva politicizzata e temi divisivi possano farlo fallire?

Per una parte dello staff editoriale le indicazioni dall’alto sul mantenere più o meno intatta l’anima della rivista sono state sufficienti per dimettersi. E’ interferenza al lavoro giornalistico, alla libertà di espressione, dicono i dimissionari. “L’indipendenza editoriale è il fondamento di quello che facciamo, ed è per questo che i lettori si fidano di noi”, ha detto uno di loro al Washington Post. 

Immaginiamoci la rivista che troviamo incellofanata sui sedili del Frecciarossa, con Pierfrancesco Favino in copertina, e poi la apri e sembra Jacobin o la pagina Instagram di Cathy La Torre. Immaginiamoci di aprire National Geographic e l’articolo sulle rovine cambogiane di Angkor che non vediamo l’ora di leggere è scritto con la schwa. Allora tanto vale stare su Facebook.

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