Il governatore della Florida Ron DeSantis (Lapresse)

Cartoni e potere

Guerra a Topolino. Ron DeSantis contro la cultura woke della Disney

Giulio Silvano

Nella sua crociata anti-politicamente corretto, il governatore della Florida ha attaccato la casa di produzione, che ora gli fa causa. Con un effetto non da poco sulle presidenziali del 2024

Stava per diventare il nuovo volto del partito repubblicano, Ron DeSantis, era lì lì per togliere la corona a Donald J. Trump e diventare l’idolo di Fox News, il nuovo messia contro il controllo democratico della Casa Bianca, per esportare il “modello Florida” in tutta l’America. Per mesi i commentatori conservatori hanno celebrato le sue vittorie, dopo esser stato rieletto governatore per un secondo mandato nel 2022 con un margine di quasi venti punti, e hanno lodato la sua capacità di ottenere una fama nazionale con l’immagine di un uomo forte ma senza il drama e i capricci della precedente amministrazione repubblicana. Considerato un “Trump più intelligente”, DeSantis è stato visto anche come l’uomo capace di unire un partito diviso, rimettere insieme i neocon à la Bush e i filopopulisti con tendenze estremiste che hanno permesso alla folla inferocita di entrare nel Campidoglio il 6 gennaio del 2021. Dopo che l’uragano Ian ha colpito le coste della Florida, uccidendo 149 persone, il governatore è stato addirittura incensato da Joe Biden per il modo in cui ha coordinato le operazioni di sicurezza e ha risposto all’emergenza. Insieme a quelle del presidente, in quell’occasione sono arrivati diversi applausi bipartisan che lo hanno mostrato come una figura meno divisiva dei volti repubblicani a cui ci si è ormai abituati. Con un curriculum presidenziale, università di Yale e Harvard ed esperienza in Iraq con la marina, il quarantaquattrenne (trentadue anni meno di Trump) DeSantis sta riuscendo però a bruciarsi questa fama, ancor prima di annunciare la candidatura ufficiale per le primarie di partito. Secondo i sondaggi Trump lo batterebbe, oggi, 56 a 23. E anche se manca qualche mese al 2024, una distanza così ampia è difficile da colmare, soprattutto con quello che sta facendo il governatore in questo periodo: una serie di autogol che fanno gongolare i trumpiani di ferro e i democratici, facendo sempre di più diminuire l’hype che gli si era creato intorno.

 

Una delle azioni che appaiono più autosabotanti per la scalata a Washington del governatore è la lotta in cui si sta impegnando strenuamente da qualche mese contro la Disney. In una ormai vecchia puntata dei Griffin due dei protagonisti, Stewie e Brian, finivano in un universo parallelo disneyano dove allegri uccellini venivano a trovarti alla finestra, si preparavano torte fumanti e tutti cantavano allegri e saltellanti; tutto perfetto e ideale finché non appariva un ebreo e veniva malmenato dagli altri che fino a poco prima canticchiavano. L’antisemitismo di cui per anni è stato accusato il mondo Disney, e il vecchio Walt, è stato superato col tempo, a fatica, e adesso l’azienda è una delle più woke del mondo, un veicolo di posizioni progressiste adattato alle richieste del suo pubblico, un perfetto esempio di come le ideologie vengano abbracciate in base alle richieste di mercato. Inoltre Disney negli anni ha canalizzato la rappresentatività etnico-geografica o, come è successo con la versione live-action della Sirenetta, ha iniziato a far interpretare ad attori non bianchi parti che in passato sono state interpretate da bianchi, oltre ad aver iniziato a produrre film e serie incentrate su figure non europee o americane, come Natural Born Chinese, in uscita sulla piattaforma streaming dell’azienda. Ma allo stesso tempo ha cercato di proteggere i diversi mercati, come quello cinese, vietando ad esempio l’uscita di una puntata dei Simpson su Disney+ dove si faceva riferimento ai campi di lavoro cinesi, anche perché nel 2016 è stato aperto un grosso parco divertimenti a Shangai. Disney, tolta l’immagine novecentesca che gli aveva dato il suo fondatore Walt, è diventata anche grazie a questo una delle più grandi corporation dell’intrattenimento, avendo comprato negli ultimi anni diversi canali e case di produzione, dalla 21th Century Fox alla Marvel, fino a tutto il franchise Star Wars, che ha permesso l’uscita costante di prodotti mediali con spade laser e baby Yoda. Un portfolio per assicurarsi i più grandi successi mainstream al botteghino, automatici quando sulla locandina ci sono Uomo Ragno, Iron Man e compagnia (quello che Martin Scorsese ha definito “non cinema”). Anche sulla questione Lgbtq l’apertura di Disney è stata massima, almeno in occidente – il live-action de Il Re Leone del 2019, ha reso esplicita nel film l’omosessualità di Timon e Pumba, ad esempio. E proprio su questo tema è iniziata la disputa tra DeSantis e Topolino.

 

Il governatore nel marzo del 2022 ha fatto passare una legge statale, la Parental Rights in Education, per garantire, a sua detta, più diritti ai genitori sull’educazione, nota col nome di legge “Don’t say gay”. La legge proibisce che ci siano discussioni e insegnamenti legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere nelle scuole elementari. Non appena era stata proposta si erano levate polemiche gigantesche. Al coro, dopo alcune proteste dei suoi dipendenti, si è unita anche la Disney che tramite il suo ceo di breve termine Bob Chapek ha criticato la legge di DeSantis. Anzi, per molti la risposta del ceo è arrivata troppo in ritardo e si è dovuto scusare per aver attaccato DeSantis dopo qualche settimana, tanto che si era arrivati, per il silenzio del CdA, all’hashtag #BoycottDisney su Twitter. “Supportiamo la comunità [Lgbtq] da decenni”, ha detto Chapek, “è dall’inizio che siamo contro quella legge, ma avevamo scelto di non dirlo pubblicamente perché pensavamo di avere più efficacia lavorando dietro le quinte e parlando direttamente con i legislatori di entrambe le parti”. Il legame tra la Disney e la Florida è molto stretto, perché l’azienda tramite il suo parco divertimenti di Orlando è il secondo principale datore di lavoro privato dello stato, con oltre 70 mila dipendenti. L’adattamento allo Zeitgeist è in corso da tempo, ovviamente, e Disney World negli anni aveva già subito un restyling di alcune scenografie che potessero urtare il pubblico più “triggerabile”, come la scena dentro l’attrazione dei Pirati dei Caraibi in cui alcuni manichini-pirati vendevano delle manichine-schiave. Modifiche erano state fatte anche sul linguaggio: l’inizio del discorso della parata quotidiana del parco – “signore e signore, bambine e bambini, benvenuti” – era stata tagliata per essere più inclusiva. Ma fino ad allora l’odio anti Mickey Mouse si era limitato a piccole proteste da parte dei commentatori più conservatori in televisione o di gruppi religiosi di destra come l’American Family Association che addirittura dal 1995, da quando sono stati dati dei benefici agli impiegati omosessuali, invita al boicottaggio della Disney.

 

Dopo le frasi di Chapek contro la legge “Don’t say gay”, il governatore in coda a una mail ai suoi donatori ha scritto: “Se la Disney vuole fare a botte ha scelto il tipo sbagliato con cui prendersela”. E’ iniziata così un’epica battaglia tra la politica e una gigante corporation che sta avendo già grandi effetti sulle presidenziali del 2024. Come vendetta alla presa di posizione della Disney, DeSantis ha deciso di togliere lo status legislativo speciale per quel pezzo di terra occupato dal grosso parco, dicendo che si trattava di un “privilegio” che nessun altro aveva in Florida. Dal 1967 questa legge permetteva al Walt Disney World di Bay Lake, fuori Orlando, di funzionare come una sorta di contea indipendente, come un distretto disneyano indipendente, una repubblica pirata di Topolinia, con oltre un centinaio di chilometri quadrati con dentro due città, parchi a tema e oltre venti resort. Grazie a questa particolarità legale per anni la Disney ha gestito da sola quel territorio, non dovendo chiedere particolari permessi per costruire ed evitando alcune tasse.

 

DeSantis stava già festeggiando dopo aver annunciato la fine dei privilegi. Ma quando i burocrati dello stato si sono resi conto che eliminando quel particolare distretto alcuni costi di gestione municipale e alcuni debiti sarebbero ricaduti sulle contee confinanti e sui suoi cittadini (ed elettori), il governatore ha deciso di restaurare quello status speciale, sostituendo però il consiglio amministrativo del distretto, una sorta di consiglio comunale e di amministrazione insieme, con figure vicine a lui, per toglierne il controllo alla Disney. DeSantis ha anche minacciato di far costruire una prigione vicino al parco, per allontanare visitatori – che sono oltre trenta milioni ogni anno. Poi a fine aprile, il nuovo consiglio di questo distretto speciale ha deciso di cancellare degli accordi già in atto per l’espansione di alcune aree del complesso, così la Disney si è stancata e ha deciso di tirare fuori gli avvocati e di fare causa parlando di “una precisa campagna di ritorsione politica” che minaccia “gli affari dell’azienda”. I contratti interrotti dal nuovo consiglio, dice Disney, “erano alla base di miliardi di dollari di investimento da parte e di migliaia di nuovi posti di lavoro”. Si parla di oltre 17 miliardi nei prossimi dieci anni, per oltre 13 mila nuovi impieghi. Si vedrà se il sistema giudiziario dello stato riterrà le azioni del governatore come un ostacolo di matrice politica agli affari della Disney. “Preferisco essere governato dal popolo che dalle aziende woke”, ha detto il governatore in una recente intervista.

 

L’attuale ceo, Bob Igert, ha dichiarato che le azioni di DeSantis non solo vanno contro la Florida, ma sono “anti-business”. E in effetti molti hanno attaccato il governatore perché questo tipo di intralcio agli affari è stato considerato “poco repubblicano” e contrario all’idea reaganiana di libero mercato. Un giovane candidato alle primarie del GoP per la presidenza, l’imprenditore Vivek Ramaswamy, ha detto: “una volta il Partito repubblicano si dedicava completamente a promuovere le virtù del capitalismo”. L’altra candidata, Nikki Haley, ex governatrice del Sud Carolina, ha taggato la Disney in un Tweet dicendo: “Il mio stato accetterà volentieri i vostri 70 mila posti di lavoro se volete andarvene dalla Florida”. E anche Trump, che della Florida è diventato un residente, ha detto che DeSantis verrà “distrutto completamente dalla Disney”. DeSantis non è solamente diventato un bersaglio degli altri contendenti alla Casa Bianca ma, secondo i sondaggi, sta perdendo l’appoggio dei floridian per via di quella che viene vista come una cocciutaggine inutile portata avanti contro la Disney, da cui non si ottiene alcun beneficio per il Sunshine State o per i suoi cittadini. E infatti anche molti grandi donatori, che prima sembravano entusiasti di dargli un po’ di cash per la campagna, hanno deciso di aspettare un attimo prima di impegnarsi. Anche il miliardario Peter Thiel, dopo aver sostenuto generosamente i repubblicani fino alle ultime elezioni, ha detto che per le presidenziali del 2024 non caccerà un centesimo e che i dibattiti sul gender e sui bagni per i transessuali sono solo “una distrazione dai veri problemi” e dalle policies economiche su cui ci si dovrebbe concentrare.

 

Il conflitto DeSantis-Disney è lo specchio di un’America fratturata dalle culture wars, da quei conflitti culturali-ideologici che vedono da una parte il terrore di risultare insultanti e di perdere l’approvazione del pubblico antidiscriminatorio, neo-puritano e un po’ piagnone, e dall’altro l’odio cieco per il wokismo e per tutto ciò che ha il sentore di ideologia antifa/Lgbtq friendly/Black Lives Matter/Hollywood élite. E’ un conflitto che nasconde più profonde radici ideologiche, una lotta dove ogni gruppo cerca di far emergere come vincente il proprio sistema valoriale, senza quel “vivi e lascia vivere” che limiterebbe la massiccia polarizzazione che viviamo da qualche anno. Il governatore della Florida, che inizialmente sembrava voler attrarre l’elettorato MAGA di Trump facendosi paladino delle culture wars, oggi sembra aver perso completamente la capacità di creare una strategia elettorale, mostrandosi come estremo e inflessibile, scegliendo di scontrandosi con un Golia inscalfibile come la Disney, superpotenza della cultura pop e dell’intrattenimento, e blaterando come un Tucker Carlson qualsiasi. “In Florida non ci faremo mai soggiogare dalla folla woke”, ha detto il governatore, “la Florida è dove il wokismo viene a morire”, aggiungendo che l’establishment democratico di Washington è stato “infettato” dal virus del wokismo. Le elezioni di metà mandato, a novembre, hanno dimostrato che l’elettorato che decide è quello dei moderati che possono passare di qua e di là in base alla paura dell’estremismo, e la scelta di DeSantis di essere così radicale nella sua crociata anti woke sta facendo alzare molte sopracciglia. Se si andasse a votare domani questo posizionamento – che va bene per una parte del pubblico di Fox News ma non per i moderati che vorrebbero sentir parlare di proposte economiche, di tagli alle tasse, lavoro e infrastrutture – costerebbe a DeSantis la vittoria alle primarie e nello scontro finale democratici vs repubblicani si rivedrebbe un rematch Biden-Trump. E non perché non ci siano delle ragioni dietro alle proteste contro l’universo woke, ma perché chi amministra gli stati e chi aspira a Pennsylvania Avenue dovrebbe parlare anche d’altro oltre che della paura che i personaggi del prossimo live-action della Spada nella roccia siano interpretati tutti da afroamericani paraplegici trans con la forfora.