Battaglie culturali

Lo scontro Disney-DeSantis preconizza il futuro politico dell'America

Stefano Pistolini

Il governatore della Florida disegna le guerre culturali con un’idea di riallineamento precisa, e con uno scopo chiaro: la Casa Bianca

La Florida è una lingua di terra lunga 730 chilometri, la distanza tra Milano e Napoli. Entrando da nord, nell’area della rampante Jacksonville, si presenta come una versione accelerata della Georgia che la sovrasta, ovvero un sud civile e placato, sebbene non pacificato. Scendendo giù, emergono poi la natura e lo spirito locale dello stato, la sua complessa configurazione razziale, il contraddittorio convivere di modernità e selvaggeria, fino allo sfociare nel caos della Miami cara a noi italiani, che la prendiamo per un’escrescenza rivierasca, col Caribe a un passo e la piña colada nelle vene. Non è un caso che la Florida, terza nell’Unione per numero di abitanti, quando arriva il momento delle elezioni è uno dei più inaffidabili swing state, e gli addetti ai lavori classificano gli aventi diritto al voto della Florida come “elettorato senza radici”, le cui preferenze possono cambiare in tempi brevi. Barack Obama ha vinto due volte la Florida. Ma dopo di lui, Donald Trump ha vinto due volte e adesso vive qui, a Mar-a-Lago, vicino a Palm Beach, divenuta la neoVersailles repubblicana.


 Dopo aver servito come accusatore a Guantánamo, Ron DeSantis è oggi il più famoso e chiacchierato governatore del paese e, nonostante i trascorsi da ardente seguace di Trump, promette di trasformarsi nel suo più temibile avversario per le primarie repubblicane del 2024. Con gli ispanici ormai entrati in grande stile nei ranghi repubblicani, col crescente afflusso di nuovi residenti provenienti dagli angoli più conservatori del Midwest e con Trump a Mar-a-Lago, la Florida, più che uno swing state, sembra il laboratorio dove si definiscono gli standard del nuovo conservatorismo per gli anni Venti. E proprio evolvendo dal modello di conservatorismo trumpiano, DeSantis ora attacca sistematicamente quei valori liberali incomprensibili per molti residenti e si propone come simbolo della trasformazione. 
 

Il governatore sovente etichettato “la versione più intelligente di Trump” ha afferrato un concetto: sarà impossibile avere la meglio sull’uomo che fu il suo mentore, sulla sua sterminata popolarità e sui suoi finanziamenti, se non acquisendo uno status politico originale, mettendosi alla testa di una crociata di cui possa intestarsi tutti i meriti. E DeSantis ha focalizzato il campo di battaglia: le guerre culturali combattute sul fronte conservatore, utilizzando lo strumento decisionale della sua firma di legislatore, in grado di rendere operative quelle che altrimenti resterebbero solo promesse elettorali. DeSantis governa all’insegna del detto-fatto. E ora sta rendendo ancor più stuzzicante a livello nazionale il proprio attivismo legislativo, promuovendo e rendendo operativi due disegni di legge clamorosi e apparentati tra loro. Il primo è stato ribattezzato “Don’t Say Gay”, ovvero “non dire gay” e proibisce gli insegnamenti inerenti le differenze e la libertà di genere e orientamento sessuale impartiti a bambini che non abbiano raggiunto la quarta elementare, classificando questi messaggi inappropriati al di sotto di quella fascia d’età. A stretto giro DeSantis ha messo a segno il provvedimento pendant con “Don’t Say Gay”, stavolta chiamato “Stop Woke Act”, che punta dritto al bersaglio grosso delle attuali guerre culturali d’oltreoceano: la Crt, la Critical race theory, la teoria critica della razza secondo la quale i modelli storici di razzismo permangono e sono radicati nella legge e nelle istituzioni americane del presente, facendo del razzismo un problema sistemico e non una semplice questione di bigottismo dell’individuo. Elaborata già a fine Novecento come caratteristica permanente della società statunitense dallo studioso e attivista afroamericano Derrick Bell, la teoria ha acquisito nuovo risalto in coincidenza con le proteste seguite all’uccisione di George Floyd da parte della polizia, divenendo un caposaldo dell’ideologia progressista contemporanea, perciò tacciata di disfattismo, paranoia e antinazionalismo dagli ambienti conservatori. Proprio in questa direzione si sono mosse le ambizioni di Don DeSantis, con l’enunciazione di questa legge che consente agli insegnanti di affrontare temi come la schiavitù, l’oppressione, la segregazione e la discriminazione razziale includendo il principio che codeste ingiustizie siano state sconfitte dalla libertà individuale oggi vigente, e perciò evitando ogni forma di persuasione degli studenti riguardo a un punto di vista critico sull’argomento. L’intimidazione del corpo docente contenuto nella legge è lampante e funge da contraltare alla legge sull’informazione scolastica inerente le differenze sessuali. 


L’intento di DeSantis è chiaro: utilizzare i bambini, i figli, la parte esposta ed emotivamente coinvolgente della cittadinanza per richiamare a sé l’attenzione dell’elettorato. La sua realtà resta fuori dalla porta della scuola, demandata agli orientamenti delle famiglie, spingendo sul pedale dell’ultraindividualismo: ciascuno cresca i figli secondo le proprie convinzioni etiche. La scuola deve limitarsi alla formazione, e non alla discussione. Il dipartimento dell’Istruzione locale ha di recente estromesso 54 dei 132 libri di testo che gli sono stati proposti, con la motivazione che contengono riferimenti alla teoria critica della razza. I bersagli sono altri provvedimenti che appartengono alla storia moderna degli Stati Uniti, a cominciare dall’affirmative action, il meccanismo di risarcimento nel campo del lavoro, dell’istruzione e dell’inclusione sociale in favore di membri delle comunità per secoli vittime di discriminazione. E’ ancora legittima questa riparazione? Ron DeSantis  intende proporsi come il paladino del riallineamento della società americana, scossa dalle ripetute chiamate a responsabilità per il proprio passato e all’ammissione di diversità a lungo negate. 


Ed è qui che sul ribollente scenario della Florida fa la sua comparsa un altro personaggio: Christopher Rufo, 37enne di Seattle, ex documentarista e da tempo agitatore dell’intolleranza, esponente del think tank ultraconservatore Manhattan Institute, fotogenico frequentatore di talk show con predilezione per quelli più provocatori. Rufo brilla per sapienza digitale, da eccellente comunicatore. E potremmo dire che adesso Rufo stia a Ron DeSantis, come Steve Bannon stava a Donald Trump, ma con un  maggior tasso di contemporaneità. Inizialmente Rufo si è fatto notare in un talk in cui esortava Trump, allora alla Casa Bianca, a prendere posizioni decisioniste contro i corsi di formazione sulla teoria critica della razza. Trump lo vede e lo convoca: lo vuole come consulente. Poche settimane dopo attorno alla Crt si scatenerà la guerra culturale, coi repubblicani impegnati ad accusare i sistemi scolastici d’indottrinamento degli studenti. Diciassette stati avrebbero approvato leggi per limitare gli insegnanti delle scuole pubbliche nella discussione del razzismo e del sessismo. E oggi Rufo è diventato il collaboratore più vicino, si potrebbe perfino ipotizzare lo stratega del governatore Ron DeSantis nell’elaborazione del “Stop Woke Act” che proibisce insegnamenti che alludano alla permanenza di componenti razziste e comunque oppressive nella società contemporanea americana, in modo tale che “un individuo possa sentirsi personalmente responsabile e colpevole, fino a subire disturbi psicologici” a causa di azioni commesse in passato da membri della sua razza, genere, o appartenenza nazionale. “In Florida non c’è posto per la discriminazione o l’indottrinamento”, tuona DeSantis, aggiungendo che, in particolare, gli studenti bianchi, che si trovano sottoposti alla pressione più forte, non possono sopportare una simile colpevolizzazione: “Non permetteremo che i dollari dei contribuenti vengano spesi per insegnare ai nostri figli a odiare il proprio paese. O a odiarsi tra di loro”. Bollando infine la Crt di “razzismo di stato”. 


Rufo fiancheggia DeSantis nel principale sviluppo dei suoi provvedimenti, uno scontro frontale inatteso, vista l’identità delle armate che si fronteggiano: lo stato della Florida contro la Walt Disney Company. La rappresaglia si è scatenata allorché, all’indomani della diffusione del “Don’t Say Gay”, la componente Lgtbq dell’azienda più importante e influente della Florida ha preteso che i suoi vertici disapprovassero ufficialmente il provvedimento, annunciando la sospensione di donazioni ai partiti favorevoli e il supporto alle organizzazioni che gli si oppongono. “Se la Disney vuole la guerra, ha scelto la persona sbagliata”, ha fatto sapere il governatore. “Sono stato eletto per mettere al primo posto il popolo della Florida e non cederò mai il comando a una società con sede in California”. La Disney è il più grande datore di lavoro dello stato e l’unica azienda della Florida cui sia stato concesso il diritto di autogovernarsi. Ora DeSantis la vuole privare dei benefici di cui dispone, annullando lo statuto speciale che le ha permesso di creare infrastrutture e costruire senza chiedere autorizzazioni al governo locale. Il ceo della Disney, Bob Chapek, non poteva fare altrimenti: i dipendenti reclamavano la difesa della diversità e dell’inclusività e oggi la Disney punta  a contrastare ogni forma di esclusione nella sua sfera d’influenza, a cominciare dalla produzione  dove tutto è per tutti e discorsi di razza e genere sono tenuti sotto chiave. Così, mentre i legislatori repubblicani di altri stati stanno proponendo misure simili, Rufo utilizza le proprie tattiche contro l’avversario-simbolo di questa crociata, usando gli stratagemmi sperimentati in altre guerre culturali, a cominciare dalla fuga di documenti riservati. Come quello reso pubblico dallo stesso Rufo nel corso di un talk show, nel quale un produttore Disney chiede ai collaboratori di aggiungere della “diversità” in un cartone animato – inconfutabile prova, secondo lui, dell’intenzione della casa di sessualizzare i bambini. 


Rufo è convinto che la battaglia contro quella che chiama “l’ideologia di genere” sia solo l’inizio di una più vasta guerra che investirà i modi in cui la storia americana, e in particolare la questione della razza, vengono insegnate nelle scuole della nazione. In un’intervista si è anche detto convinto che oggi la questione sessuale sia più esplosiva di quella razziale, arrivando a definire le scuole americane “terreni di caccia” per gli insegnanti, sostenendo che “i genitori hanno tutte le ragioni” di preoccuparsi per il clima ideologico prevalente, in particolare nelle scuole pubbliche. 


DeSantis intanto attiva i preliminari per impugnare gli accordi all’origine del Reedy Creek Improvement District di DisneyWorld, datato 1967, che autorizzava la Disney a costruire strade, gestire impianti di trattamento delle acque reflue, disporre di propri vigili del fuoco e  regolamentare i propri piani edilizi nella colossale iniziativa imprenditoriale che porta alla nascita del Disney World di Orlando. Se lo scontro col governatore non troverà soluzioni, la Disney non potrà impacchettare Disney World e spostarlo altrove e dovrà trovare un compromesso: la perdita del trattamento fiscale speciale intaccherebbe però la crescita e limiterebbe la capacità dell’azienda di sfruttare le proprietà di cui dispone e le risorse su cui ha finora contato. Ma per lo stato della Florida un problema altrettanto grosso sarebbe rappresentato dal miliardo di dollari in obbligazioni esentasse emesse dalla Disney. Se l’accordo venisse sciolto, la responsabilità di tali obbligazioni ricadrebbe sui governi locali. E pensare che i vertici Disney avevano cercato di ridurre al minimo l’impatto della loro presa di posizione contro il “Don’t Say Gay”, fino al giorno in cui l’azienda ha dovuto ufficializzare la propria posizione a difesa dei suoi dipendenti Lgbtq. Del resto risiede nella stessa ideologia della Disney il principio di piacere a tutti.  Per molti anni l’azienda ha avuto anche un fascino conservatore, producendo storie per famiglie che affermavano i solidi valori americani e li promuovevano nel mondo. Ma di recente le cose sono cambiate e a  essere privilegiate ora sono posizioni diversificate e inclusive. Intanto DeSantis non perde occasione per attaccare Chapek, nella speranza che le sue bordate riecheggino sulla ribalta nazionale, e lo scontro Disney-Florida diventa l’ultimo esempio di come la crescente disponibilità delle aziende a parlare di questioni sociali possa facilmente scontrarsi coi disegni e la volontà di tanti legislatori.


Sullo sfondo s’intravede con chiarezza la silhouette della Casa Bianca. I due più accreditati pretendenti alla nomination repubblicana convivono in uno stato che sta diventando troppo stretto per contenerli. Il giovane leone DeSantis insiste nell’interpretare il decisionista tutto “azione & reazione”. Ma sa bene che in quello che sarà un affollato lotto di concorrenti, prima di tutto dovrà sconfiggere Donald Trump. A questo scopo l’immagine del politico pronto a battersi per un sonoro messaggio dai risvolti etici potrebbe risultare efficace. E soprattutto contribuirebbe a mantenere il governatore in prima linea nella mente e nell’immaginazione della base elettorale conservatrice. 

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