Ron DeSantis (Ansa)

Ronald contro Donald

Chi è DeSantis, il governatore della Florida che vuole sfidare Trump a destra

Marco Bardazzi

Altro che versione “light” dell'ex presidente. La carriera, i discorsi e gli scritti che il politico di origini italiane ha lasciato come tracce in questi anni dicono un’altra storia. Adesso è a un passo dall'annunciare formalmente che sfiderà The Donald e tutto lascia pensare che sia l’unico tra i repubblicani a poterlo battere
 

Il confronto con i grandi della Storia può essere spietato, ma è un buon metro di misura per giudicare un politico. Soprattutto se si tratta di qualcuno che ha l’ambizione di presentare il proprio curriculum per essere assunto a fare il mestiere più difficile del mondo: quello di presidente degli Stati Uniti. 
Ron DeSantis deve aver pensato che il fatto di chiamarsi Ronald (anche se fin da piccolo il nome gli è stato abbreviato) fosse sufficiente per provare a paragonarsi all’omonimo Reagan. Per ora al governatore della Florida che sogna la Casa Bianca la scelta è andata male due volte. Da una parte ci sono i sostenitori di Donald Trump, che hanno cominciato ad attaccarlo definendolo un “Reagan Republican”. E questo rende già l’idea di cosa è diventata l’ala MAGA (Make America Great Again) dei repubblicani americani, se considera un limite e un’offesa il paragone con uno dei presidenti più amati del Ventesimo secolo. Dall’altra ci sono i repubblicani dell’establishment ridotti in minoranza, quelli che si riconoscevano in George W. Bush, John McCain e Mitt Romney, per i quali Ronald Reagan resta un mito e un punto di riferimento politico: anche per loro, questo nuovo “Ron” appare un alieno. 

 

DeSantis e l’inchiesta giudiziaria su Trump a Manhattan sembrano al momento le uniche carte su cui possono contare quei repubblicani che sono convinti che presentarsi di nuovo agli elettori nel 2024 con The Donald (ammesso che per l’epoca sia a piede libero) sia una scelta perdente. Ma il governatore dello stato dove Trump si è rifugiato a vivere nella villa di Mar-a-Lago gioca una partita delicatissima. Se vuole la nomination, deve convincere anche una larga parte dell’elettorato MAGA. Ed è per questo che quando giovedì è arrivata la notizia dell’incriminazione di Trump a New York, DeSantis l’ha subito bollata come “un-American”, contraria a suo dire allo spirito del paese. E ha promesso che non estraderà Trump dalla Florida, se si arrivasse a tanto. 
I guai giudiziari dell’ex presidente saranno il tema dei prossimi mesi e potrebbero complicare la scelta del momento giusto per DeSantis per scendere in campo. Ma potrebbero anche aiutarlo ad acquistare visibilità. E allora occorre capire il fenomeno DeSantis e conviene partire proprio da Reagan. 
 
Il 5 marzo scorso il governatore della Florida è volato in California con moglie e figli al seguito per andare a tenere un discorso che voleva essere “presidenziale” alla Reagan Library, il grande ranch di Simi Valley dove riposa il presidente degli anni Ottanta e dove sono custodite tutte le sue memorie. Un luogo sacro per la politica americana, un posto di pellegrinaggio per repubblicani che salgono in cerca di ricordi e ispirazione lassù, sui monti che sovrastano Los Angeles e Santa Monica, Malibù e Santa Barbara. C’è la tomba del vecchio leader, aperta a semicerchio verso ovest e verso i tramonti sul Pacifico, accanto alla quale è stato collocato un pezzo del Muro di Berlino che Reagan contribuì a far cadere. C’è un gigantesco hangar nel quale è ospitato l’Air Force One originale su cui hanno volato i presidenti fino a Bill Clinton, insieme a una ricostruzione dello Studio Ovale, una copia esatta del Checkpoint Charlie da cui si passava da Berlino est a ovest, le gigantografie dei summit con Gorbaciov, l’elicottero Marine One e le limousine blindate di Reagan. L’auditorium dove ha parlato DeSantis è ricavato proprio in mezzo a questi cimeli. Il palco è un trionfo di bandiere a stelle e strisce e il podio è quasi identico a quello che spetta al presidente. 

 

DeSantis era stato invitato a presentare il suo libro appena uscito, un obbligo e una tradizione per un politico che si appresta a candidarsi per la Casa Bianca. Si intitola “The courage to be free” (il coraggio di essere liberi), sottotitolo “il modello della Florida per la rinascita dell’America”. Cosa ha raccontato il governatore in questo luogo carico di storia, di ideali e di memorie del suo omonimo? Provate a guardare il video sul sito della Reagan Library. Un discorso di 45 minuti di cui i primi due dedicati a un paio di battute cariche d’ironia reaganiana e gli ultimi cinque di generico tributo a Reagan e all’idea di difendere la libertà nel mondo. Tutto il resto è una lunga tirata su cosa ha fatto DeSantis in Florida in questi anni per battersi contro “la dittatura dei medici” e “l’autoritarismo sanitario”, rifiutando le mascherine e gli obblighi di vaccino contro il Covid; una lista di accuse a Anthony Fauci, George Soros e le “élite liberal di Davos”; una rivendicazione dello scherzo fatto ai ricchi del New England, mandando loro in aereo dalla Florida un gruppo di immigrati disperati che sono stati fatti atterrare a Martha’s Vineyard, l’isola delle memorie kennediane; un elenco di provvedimenti presi nelle scuole e nelle università contro qualunque cosa possa essere definita woke. E la ripetizione ossessiva di quella parola, woke, woke, woke, ormai diventata una password per scatenare riflessi pavloviani nella pancia trumpiana del paese, senza che nessuno sappia più di preciso cosa significhi e come possa essere diventata, da espressione gergale dell’underground afroamericano degli anni Sessanta, un insulto a tutto ciò che è percepito come “progressista”. 

 

Niente di reaganiano in tutto questo. Nessun ottimismo, nessuna idea di America come shining city on a hill, nessuna visione del mondo, nessuna tensione ideale, neppure alcun particolare cenno di simpatia verso il conservatorismo fiscale di Reagan. Né tantomeno alcun riferimento alle politiche di allargamento dell’immigrazione regolare in America, che il presidente degli anni Ottanta vedeva come estremamente positiva e necessaria: l’ultimo discorso che fece in pubblico, prima di chiudersi nel declino degli anni dell’Alzheimer, fu una lode agli immigrati e un incoraggiamento a venire a vivere in America. Il tutto aggravato dal problema che anche i suoi sostenitori vedono in DeSantis: una mancanza di carisma che rende improponibile il confronto con Reagan, ma rende anche difficile immaginare come possa cavarsela contro il carismatico ed esuberante Trump, che ha già cominciato a prenderlo in giro nei comizi descrivendolo come un piagnucolone senza spina dorsale.   

 

Eppure, DeSantis è a un passo dall’annunciare formalmente che sfiderà Trump e tutto lascia pensare che sia l’unico tra i repubblicani a poterlo battere. Dalla sua ha l’incoronazione ricevuta lo scorso novembre, quando è stato confermato governatore con una vittoria a valanga in Florida nello stesso momento in cui i repubblicani trumpiani facevano pessime figure nelle elezioni di Midterm. Ma ha anche una storia familiare e personale perfetta, che sembra la risposta di ChatGPT a chi chieda all’intelligenza artificiale di immaginare un ipotetico politico repubblicano capace di vincere nell’America di oggi. E allora vale la pena conoscere meglio chi potrebbe giocarsi la partita per la Casa Bianca il 5 novembre 2024 e magari giurare da presidente il 20 gennaio successivo. 

 

Sgombriamo subito il campo da una semplificazione che già circola, l’idea cioè che DeSantis sia una versione “light” di Trump. La carriera politica, i discorsi e gli scritti che il governatore della Florida ha lasciato come tracce in questi anni dicono un’altra storia. Se per “light” si intende che sarebbe meno estremista e duro su alcuni temi, è un’illusione. Se contano le cose che ha detto e scritto nel corso del tempo (ma è vero che quando si arriva al potere spesso le posizioni cambiano), un eventuale presidente DeSantis sarebbe ancora più isolazionista di Trump, nemico della Nato, scettico sul ruolo dell’Onu, morbido con Putin, falco sulla Cina e alla destra di Trump su tutto ciò che riguarda Israele. Da ex militare, sarebbe prudente sull’impegno delle forze armate americane nel mondo: ha appoggiato per esempio la scelta di Barack Obama di non intervenire in Siria. Sulla guerra in Ucraina ha detto cose talvolta contraddittorie, ma in sostanza è contrario all’idea di un appoggio a oltranza al governo di Kyiv e sembra sensibile alle rivendicazioni russe su Crimea e Donbas (e forse anche su qualche altro pezzo del paese). Sulla politica interna sarebbe molto più ideologico dell’ex presidente – la cui unica ideologia in realtà è il culto della propria persona – e interventista su tutte le battaglie culturali più calde del paese, da quelle sui diritti degli immigrati all’aborto, il gender, i matrimoni gay, il razzismo, la riscrittura della storia americana. 
Se invece per “light” si intende quanto sia preparato per il salto verso la politica nazionale, è altrettanto sbagliato da usare perché a 44 anni il curriculum di DeSantis è assai più solido e pesante di quello del settantaseienne Trump, che prima di fare il presidente non aveva mai avuto incarichi elettivi ed era noto solo come personaggio televisivo e imprenditore immobiliare dalle attività opache. DeSantis ha una laurea in storia a Yale, un’altra in legge a Harvard e prima di entrare in politica è stato per anni un militare di carriera. Da avvocato della Marina è stato di stanza a Guantanamo a gestire i processi ai “combattenti nemici”, poi a lungo in Iraq come consigliere legale dei Navy Seal, i corpi speciali della Marina, durante i combattimenti per riprendere Fallujah. Quando ha abbandonato la divisa è diventato prima deputato a Washington, poi è tornato nel suo stato come governatore. 

 

DeSantis è nato in Florida da genitori italoamericani che vi si erano trasferiti dall’Ohio. Il padre Ronald lavorava per la Nielsen e installava rilevatori tv tipo quelli dell’Auditel, la madre Karen era infermiera. Se fosse scelto come candidato repubblicano alla Casa Bianca, sarebbe il primo italoamericano ad avere un’opportunità del genere. Ci avevano provato Mario Cuomo e Rudy Giuliani, ma quella che per ora ci è andata più vicina è stata Geraldine Ferraro, candidata alla vicepresidenza con Walter Mondale nel 1984 (poi sconfitto da Reagan). E se fosse eletto presidente, sarebbe il terzo cattolico della storia dopo John F. Kennedy e Joe Biden. 

 

Per quanto sia un teorico della linea dura sull’immigrazione, DeSantis è il perfetto rappresentante dell’integrazione che può raggiungere in America una famiglia di immigrati. Le sue origini sono al cento per cento italiane e i nonni sia materni che paterni sono arrivati negli Usa, via Ellis Island, tra l’inizio del secolo scorso e il 1920. Secondo gli alberi genealogici ricostruiti dai media americani, i primi ad arrivare furono i nonni della madre Karen Rogers, in particolare Antonio Ruggiero che proveniva da San Bartolomeo in Galdo (Benevento) e cambiò nome in Tony Rogers. Nicola Desantis e la moglie Maria Nolfi, i bisnonni paterni di Ron, arrivarono invece in Pennsylvania da Cansano (L’Aquila), oggi un paesino di duecento abitanti nel Parco della Maiella. 

 

Nella costruzione del personaggio pubblico di DeSantis, una larga parte del merito spetta a sua moglie Casey, un’ex giornalista che lo ha accompagnato in tutta la carriera politica e che ancora cura alcuni aspetti della sua comunicazione. Il loro incontro nel 2006, quando il futuro governatore era uno sconosciuto ufficiale della Marina, è avvenuto su un campo da golf e DeSantis nella sua biografia lo ha descritto come “il momento più fortuito della mia vita”. Casey, che si occupava di golf come giornalista sportiva, ha raccontato che stava guardando un cesto di palline da allenamento che voleva utilizzare per fare pratica, quando Ron ha pensato che stesse invece guardando lui e si è fatto avanti. Ne è nato un lungo corteggiamento, proseguito a distanza quando Ron era distaccato in Iraq, e concluso con un matrimonio a Disney World a Orlando nel 2009. Cerimonia nuziale nella cappella di fronte al castello di Cenerentola e ricevimento alla Italy Isola di Epcot, uno spazio in stile finta Venezia molto ambito dalle coppie che si sposano in Florida. Soprattutto quelle con radici italoamericane come il clan DeSantis. 

 

E’ curioso pensare come negli anni successivi Disney World, nonostante abbia fatto da sfondo alle foto di nozze della nuova coppia, sia diventata una sorta di nemico perenne per DeSantis, un “luogo di perdizione” a cui da tempo sta facendo la guerra perché lo considera un avamposto woke – di nuovo – nel cuore della sua Florida. L’ex amministratore delegato della Disney, Bob Chapek, si era trovato tra l’incudine e il martello quando DeSantis aveva varato la legislazione statale cosiddetta “Don’t Say Gay”, che limita la libertà di manovra delle scuole pubbliche in tema di educazione sui temi di gender e di orientamento sessuale. Da una parte Chapek ha dovuto fronteggiare i dipendenti di Disney World, irritati perché a loro avviso la società non si era ribellata con forza a DeSantis. Dall’altra c’era il governatore che, non appena Chapek ha alzato la voce, gli ha lanciato addosso una serie di leggi che limitano le facilitazioni fiscali di cui ha sempre goduto Disney, che è uno dei maggiori datori di lavoro della Florida. Quando la società di Topolino lo scorso novembre ha cacciato Chapek per i risultati non buoni sul fronte dello streaming e ha richiamato l’ex ceo Bob Iger, DeSantis ha pensato di aver vinto la guerra. Ma Iger in queste settimane ha avviato una controffensiva legale in Florida che promette nuove bufere nello scontro culturale più monitorato d’America. 

 

Nonostante la guerra con Disney, il matrimonio con Casey celebrato a due passi da Cenerentola resta una storia da fiaba americana. La coppia ha avuto tre figli, poi ha affrontato insieme e pubblicamente la battaglia di Casey contro un tumore al seno e ha celebrato il momento in cui lei è stata dichiarata “cancer free”. Dopo anni da First Lady della Florida, lei è pronta ad assumere lo stesso ruolo anche alla Casa Bianca. Dove la coppia arriverebbe con tre bambini di otto, sei e quattro anni, due femmine e un maschio, due dei quali portano nomi che sono già un programma politico. La primogenita Madison e il fratellino Mason (la terza è Mamie) si chiamano così in onore di James Madison e George Mason, due padri della Costituzione americana a cui il laureato in storia DeSantis aveva dedicato nel 2011 molte pagine nel suo primo libro, “Dreams of our founding fathers”, scritto in aperta polemica fin dal titolo con la biografia di Obama, “Dreams of my father”. 

 

Come capita molto spesso con i libri giovanili, scritti prima che arrivino le ambizioni presidenziali e scendano in campo i consulenti della comunicazione, vale la pena rileggerli perché svelano le persone nella loro autenticità. “Dreams of my father” era un libro-verità nel quale l’ancora giovane Obama, politico alle prime armi, confessava i propri errori, l’angoscia di essere stato abbandonato dal padre africano, le sfide di crescere nero in America. Era un libro vero e senza filtri, ben diverso da “The audacity of hope”, quello che scrisse – con mille consulenti – da candidato alla Casa Bianca. Lo stesso vale per DeSantis: il nuovo libro vale poco come giudizio sul personaggio, ma quello precedente, secondo i pochissimi giornalisti che hanno rintracciato una copia ormai introvabile, trasmette uno sguardo sull’America da storico e avvocato “originalista”, cioè legato alla scuola di pensiero che domina oggi anche alla Corte Suprema e che vorrebbe congelare gli Usa alla loro costituzione del 1787. Senza nuovi diritti, senza evoluzioni, senza compromessi, in guerra totale contro qualsiasi “revisionismo storico”, come lo definisce lui, che voglia rileggere lo schiavismo e il ruolo che ebbero i padri fondatori nel mantenerlo in vita.  Altro che versione “light” di Trump. 
 

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