la prossima marcia

Mosca non rinuncia alla guerra neppure dopo un golpe. Nessuno in Russia vuole essere Gorbaciov

Micol Flammini

Tra i droni a Pskov e i rapporti sul morale basso delle truppe russe, si potrebbe pensare che il Cremlino è pronto a ritirare il suo esercito dall'Ucraina. Invece no, Mosca non porrebbe fine all'invasione neppure dopo un colpo di stato di successo. Per trovare il motivo bisogna andare indietro di trent'anni

La notte di martedì nella città di Pskov, nella parte nordoccidentale della Russia, non distante dal confine estone, è trascorsa tra gli scoppi e gli incendi: i droni di Kyiv hanno colpito un aeroporto militare. Nelle stesse ore, la capitale ucraina si difendeva dall’aggressione dei missili e dei droni di Mosca, dimostrando che la sua contraerea funziona, è efficiente, ma gli attacchi martellanti hanno comunque causato la morte di due persone. Non c’è mai stato in questa guerra un momento in cui il Cremlino abbia deciso di fermarsi, di trattare. Ha rivisto più volte i suoi piani, li ha ridimensionati, ma portare avanti l’invasione è l’obiettivo principale e immutato, anche se la Russia continua a lasciare indifesi i suoi hub militari, come quello di Pskov. Continuare la guerra è l’idea del presidente russo, Vladimir Putin, del ministro della Difesa Sergei Shoigu, ma anche di molti oligarchi o siloviki, gli uomini della forza – è questa la traduzione letterale – che sono a capo delle agenzie strategiche del paese. La morte di Evgeni Prigozhin doveva mandare un messaggio di  compattezza attorno al potere del Cremlino, solidità della leadership di Vladimir Putin, doveva indicare che la macchina del potere funziona bene. In una conversazione con la giornalista americana  Julia Ioffe, Christo Grozev, il giornalista investigativo del sito di inchiesta Bellingcat, ha detto che la morte del capo dei mercenari non esclude altri  golpe. 

 


 Grozev non esclude neppure che a farlo o tentarlo, il futuro colpo di stato,  possano essere proprio i siloviki, con l’aiuto degli oligarchi, nonostante, con ogni probabilità, saranno proprio loro a godere dello spacchettamento dei beni di Prigozhin. Chi ritenterà però dovrà  pianificare tutto fino all’ultimo, il problema della Wagner fu soprattutto l’estemporaneità, l’assenza di un piano B. Chi ritenterà sa anche che non potrà fallire, altrimenti morirà. La finestra temporale per un prossimo putsch, che non sarà una marcia, ma probabilmente partirà da Mosca, sarà più lunga. Qualcosa, prevede il giornalista, potrebbe avvenire in autunno, perché le élite sentono che potrebbero essere le prossime e nell’agire  saranno guidate dalla paura di essere epurate. Qualsiasi cambiamento però non porterà alla fine della guerra, racconta il giornalista, perché anche coloro che erano contrari all’inizio dell’invasione, hanno incamerato un messaggio, una sicurezza granitica scolpita nelle previsioni russe: se Mosca perde, la federazione si dissolverà. La guerra andrà ancora avanti, nonostante i soldati russi continuino a disertare, non abbiano motivazioni per combattere, neppure i soldi bastano a convincerli, non ricevono neppure un buon addestramento, secondo  le informazioni raccolte dall’intelligence britannica. Nonostante l’isolamento economico e politico, nelle élite non c’è chi vuole fermare la guerra. Se qualcuno arriverà al Cremlino dopo Putin si sentirà obbligato a portare avanti l’invasione, perché non vorrà che al suo nome, nella storia, sia associata l’idea della dissoluzione della Russia. Nessuno vuole diventare Michail Gorbaciov, secondo il ricordo che dell’ultimo leader sovietico hanno molti russi, secondo il ricordo che gli è stato cucito addosso anche dalla propaganda

 

L’ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Urss è morto un anno fa, il 30 agosto del 2022, ogni parte del mondo lo commemorò in modo diverso. In occidente prevalse il rimpianto. Nei paesi che avevano subìto la repressione di Mosca prevalse il cinismo. In Russia, divisa e indecisa, prevalsero le domande di chi aveva capito le sue scelte e le recriminazioni di chi gli imputa ancora tutte le colpe. 

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  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.