A Tripoli un manifestante brucia la bandiera di Israele (foto LaPresse)

A fuoco la casa del premier

In Libia si bruciano le bandiere di Israele. L'Italia "colta di sorpresa"

Luca Gambardella

Il vertice segreto fra i libici e gli israeliani svelato in modo maldestro dal ministro di Netanyahu inguaia Tripoli e provoca la rabbia di Roma e Washington. Una storia di negoziati maldestri

Un vertice fra i ministri degli Esteri di Israele e Libia, che sarebbe dovuto restare segreto e che si era tenuto a Roma la scorsa settimana, ha innescato una rivolta  in Libia, una polemica politica in Israele e  imbarazzo in Italia. Domenica, il sito del ministero degli Esteri israeliano, a sorpresa, ha reso pubblica la notizia dell’incontro fra il ministro israeliano Eli Cohen e la collega libica Najla el Mangoush. I due si erano stretti la mano grazie alla mediazione della Farnesina, come primo passo verso una storica normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra i due paesi. E’ finita invece che in poche ore migliaia di persone sono scese in strada in varie città della Libia  bruciando le bandiere di Israele e sventolando quelle palestinesi. 

 

  

La reazione alle proteste del premier libico Abdulhamid Dabaiba  è stata scomposta. Dapprima ha negato che si sia mai tenuto un incontro con gli israeliani. Poi però una fonte anonima di Gerusalemme, citata da Reuters, l’ha confermato: “E’ durato due ore e ha coinvolto le più alte cariche libiche”, ha svelato il funzionario israeliano spiegando anche che “i libici vedono in Israele un ponte diplomatico verso gli Stati Uniti”. A quel punto Dabaiba ha dovuto ammettere che il bilaterale in effetti c’era stato, ma ha detto che era imputabile solamente all’“inesperienza” della ministra Mangoush, responsabile di un’“iniziativa individuale”. Sotto pressione per le proteste, Dabaiba ha anche insistito con Gerusalemme affinché cancellasse almeno la traduzione in arabo della nota che pubblicizzava il vertice. Ma era troppo tardi: il ministro Cohen l’aveva già diffusa sul suo sito personale. La situazione in Libia è arrivata a un punto talmente critico che una delle residenze di Dabaiba a Tripoli è stata data alle fiamme. Il premier a quel punto ha ufficializzato la rimozione di Mangoush e, con un discorso tenuto all’ambasciata palestinese di Tripoli, le ha imposto di lasciare la Libia con un volo diretto in Turchia. 

 

Le tribù rivali di Dabaiba non aspettavano altro: avere un buon motivo per scendere in strada e dare al premier la colpa di un ennesimo errore politico. Al di là del sentimento anti israeliano, è  il fatto di aver tentato di concludere un accordo internazionale con uno stato straniero tenendo tutti all’oscuro a mandare in collera molte tribù. Se poi lo stato straniero in questione è quello ebraico, non occorrono altre giustificazioni per scagliarsi contro il governo.  Per questo, molti manifestanti provengono dagli ambienti religiosi e politici più radicali. Come quelli vicini all’ex presidente dell’Alto consiglio di stato, Khaled al Mishri, ritenuto vicino ai Fratelli musulmani. “Il governo ha oltrepassato tutte le linee rosse e ora è un dovere rimuoverlo”, ha detto Mishri, che detesta Dabaiba. A peggiorare le cose c’è che sono stati gli americani a porre i presupposti per una normalizzazione fra Libia e Israele. Nel corso della sua visita a Tripoli dello scorso febbraio, il direttore della Cia, William Burns, aveva chiesto a Dabaiba di aderire agli Accordi di Abramo. Forte della sponsorizzazione degli Emirati Arabi Uniti, sostenitori sia di Dabaiba sia del processo di normalizzazione con lo stato ebraico, Dabaiba aveva acconsentito. E se c’è una cosa che molte tribù libiche sopportano meno del fare accordi segreti con paesi stranieri è farli su ordine di altri paesi stranieri. 

 

L’incidente diplomatico ha avuto ripercussioni anche a Gerusalemme, dove l’opposizione è insorta contro il premier Benjamin Netanyahu. L’ex vicepremier Benny Gantz ha scritto su Twitter che si è trattato di un esempio di “politiche buone solo per finire sulle prime pagine dei giornali, con nessun senso di responsabilità e lungimiranza”. L’ex ministro degli Esteri, Yair Lapid, è stato ancora più duro: “E’ un giorno di vergogna nazionale. Ecco cosa succede quando Eli Cohen, un uomo senza conoscenza alcuna nel settore, viene nominato ministro degli Esteri. L’incidente con i libici è stato dilettantesco, irresponsabile e un grave errore di giudizio”. Cohen ha provato a difendersi dalle accuse dicendo che ci sarebbe stato un accordo con i libici per rendere pubblico l’incontro. Una versione smentita sia da Tripoli sia da Roma e che ha fatto infuriare gli americani. Lunedì, Axios ha scritto che l’Amministrazione Biden ha protestato con il governo israeliano per avere reso noto i contenuti del vertice con la ministra libica.     

 

Anche la Farnesina è stata messa in difficoltà. “E’ stata colta di sorpresa dal comunicato di Cohen”, spiega al Foglio una fonte diplomatica a conoscenza dei contenuti discussi al vertice segreto. Durante l’incontro, al quale non ha partecipato personalmente il ministro Antonio Tajani, si era parlato di preservare l’eredità ebraica in Libia, ovvero sinagoghe e cimiteri. Doveva essere solamente l’inizio di un dialogo più ampio. La Farnesina per ora resta in silenzio: “Il processo è molto delicato – spiega ancora il funzionario italiano – e viste le proteste a Tripoli non vuole commettere l’errore di interferire, anche in modo involontario, con la politica libica”. Anche in questo caso, però, potrebbe essere troppo tardi. Nelle ultime settimane l’autorità di Dabaiba si è indebolita. Dopo gli scontri a Tripoli di due settimane fa, gli Stati Uniti hanno detto di essere disponibili a sostenere un nuovo esecutivo tecnico di unità nazionale e l’Onu ha condannato l’inadeguatezza del premier nel garantire la sicurezza e la stabilità.

Di più su questi argomenti:
  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.