Il 14 settembre 2012, Barack Obama e Hillary Clinton accolgono a Washington la salma dell'ambasciatore Christopher Stevens, ucciso nell'attentato di Bengasi (foto Ansa)

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Gli americani pronti a tornare in Libia. Un messaggio per Mosca

Luca Gambardella

A 11 anni dall'attentanto di Bengasi, Blinken dice che la riapertura dell'ambasciata non è troppo lontana. E mentre la Russia ha appena riaperto la sua a Tripoli, i giganti del greggio degli Stati Uniti ricominciano a investire nel paese, ma con cautela

Dopo nove anni, gli Stati Uniti si preparano a tornare in Libia in pianta stabile e a riaprire la propria ambasciata. Lo ha annunciato la settimana scorsa il segretario di stato Antony Blinken: “Ci stiamo lavorando. Vorrei vedere gli Stati Uniti in grado di ristabilire una presenza duratura in Libia”. Non c’è ancora una data ma, secondo l’ultimo paper del Congressional Research Service, “abbiamo abbastanza fondi per finanziare la nostra diplomazia in Libia. Alcuni membri del Congresso hanno richiesto un ruolo più assertivo”. Nel budget per il 2024, una delle voci di spesa è dedicata a finanziare “una potenziale struttura di supporto alle operazioni e ai viaggi diplomatici in Libia e alle relative operazioni per una potenziale presenza americana”.

  

Per la prima volta dallo smantellamento dell’ambasciata, avvenuto nel 2014, sia il Congresso sia la Casa Bianca sono coscienti dell’urgenza di tornare a Tripoli. L’attentato di Bengasi del 2012, in cui rimase vittima l’ambasciatore Christopher Stevens, ha lasciato segni profondi nella diplomazia americana e da allora il dossier libico è stato aperto con una certa cautela da tutte le amministrazioni che si sono succedute. Ora però  i tempi sembrano maturi per un ruolo più attivo. Sabato il dipartimento di stato ha approvato la Strategia per la prevenzione dei conflitti e la promozione della stabilità, un piano decennale che include un pacchetto di aiuti e politiche mirate anche sulla Libia. La tempistica sarebbe giusta anche per rispondere alla Russia, che oltre a sostenere da anni il generale Khalifa Haftar a est, ora sta riaprendo la sua rappresentanza diplomatica anche a Tripoli. Ieri, il Cremlino ha annunciato che il suo nuovo ambasciatore, Aydar Aganin, era in viaggio per insediarsi a Tripoli. La normalizzazione interesserà a breve anche l’Iran, visto che sempre ieri la ministra degli Esteri libica, Najla el Manghoush, ha discusso con il suo omologo iraniano, Hossein Amir Abdollahian, per riaprire l’ambasciata. 

 

Ci sono poi i dossier economici a convincere la Casa Bianca a un cambio di passo. Lo ha fatto capire il senatore democratico Chris Murphy, rivolgendosi a Blinken: “Temo che senza la nostra presenza, nel 2023, vivremo momenti difficili nel proteggere i nostri capitali e molti dei dollari dei contribuenti che abbiamo speso lì”. L’idea è che la situazione della sicurezza nel paese sia migliorata abbastanza per tornare a investire. Un colosso americano nel settore degli idrocarburi, Honeywell, ha annunciato domenica la costruzione di una raffineria nel Fezzan. Un altro, Halliburton, è prossimo a rimettere in attività il giacimento petrolifero di al Dhara, distrutto nel 2015 dallo Stato islamico. Per i libici, dopo avere concluso l’accordo da 8 miliardi di dollari con Eni lo scorso gennaio, il passo successivo è tornare a fare affari con gli americani. Farhat Bengdara, presidente della National Oil Corporation libica, ha detto che l’obiettivo quest’anno è di riportare la produzione di greggio a 2 milioni di barili al giorno dagli attuali 1,2. E anche sul fronte del gas l’intenzione è spingersi fino a 4 miliardi di metri cubi al giorno, quasi il doppio del livello attuale. La Libia è il paese africano più ricco di riserve petrolifere e la sua vicinanza con l’Europa la rende un mercato di enorme interesse. Ma oltreoceano sono meno inclini al rischio rispetto a quanto possa esserlo Eni, più abituata alle complesse dinamiche libiche. In un suo rapporto recente, il dipartimento di stato americano ha avvertito che Tripoli “ha una lunga storia di mancati pagamenti e incapacità nell’onorare contratti. Molte compagnie americane continuano ad avanzare crediti per lavori compiuti prima e dopo la rivoluzione del 2011”. Catherine Hunter, analista di Standard & Poor’s, ha detto che “per alcune super major c’è voglia di investire nel paese, ma le compagnie petrolifere hanno tolleranze diverse al rischio e quindi non credo che la Libia, così come è, sarà un investimento principale”. 

 

Per tornare a fare affari a Tripoli come un tempo serve stabilità e nessuno alla Casa Bianca si illude che possa materializzarsi a breve. Lo status quo potrebbe bastare, ma per preservarlo la priorità di Joe Biden è svincolare Haftar dal sostegno di Vladimir Putin. In questi mesi, sia il direttore della Cia, William Burns, sia l’assistente di Blinken, Barbara Leaf, sono volati in Libia per provare a convincere il generale ad abbandonare l’aiuto dei mercenari della Wagner. I risultati finora sono stati nulli, ma riaprire un’ambasciata nel paese potrebbe rivelarsi un messaggio più incisivo di tanti bilaterali. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.