Cittadini francesi in attesa di essere trasportati in Francia su un aereo militare (LaPresse) 

Macron sapeva. Perché la Francia in Niger ha scelto il profilo basso

Jean-Pierre Darnis

Parigi potrebbe dare appoggio a un eventuale intervento africano ma lo farà con la massima discrezione, anche perché ben conscio ormai quanto  il marchio francese sia diventato delegittimante in Africa. L’Italia invece si affaccia per la prima volta alla gestione di una crisi africana con un contingente e potrebbe giocare di sponda

Parigi. Per analizzare la posizione francese nella crisi nigerina bisogna partire ricordando l’operazione Barkhane svolta nel Mali dal 2014 al 2022 con l’obiettivo di stabilizzare il quadro di sicurezza al fine di promuovere democrazia e sviluppo. Le precedenti operazioni Serval e Epervier avevano dimostrato la capacità dell’esercito francese di intervenire con successo nel contrastare le bande armate. La Francia è stata poi incapace di contribuire realmente a una forma di equilibrio successivo, come se avesse ormai perso la presa sullo scenario africano. Si è poi imbarcata in una politica di controllo di una zona estesissima con un contingente modesto di 5.000 uomini: una strategia fallimentare.  

 

Il problema però va al di là delle capacità francesi e del dittico “democrazia e sviluppo” tradizionalmente spinto dall’insieme dei paesi occidentali, che non costituisce un’agenda capace di trascinare i paesi africani ormai entrati nella mondializzazione. L’incapacità della Francia di contrastare lo sviluppo di milizie terroriste in questo contesto ha poi nutrito l’accusa paradossale mossa da una certa propaganda africana che considera la Francia come un fattore di instabilità. Il riconoscimento del potere di Mahamat Idriss Deby da parte di Parigi dopo la morte di suo padre ha anche illustrato una  benevolenza per l’evoluzione dinastica del Ciad, il che appare contraddittorio da parte di chi afferma di voler difendere le istituzioni democratiche contro i colpi di stato.

   
Sono anni che non esiste più una zona di influenza post coloniale francese
. La presidenza Macron aveva colto questo punto nel 2017 quando cercò di voltare pagina, spingendo le élite africane ad entrare in una logica di “start up” tecnologiche e di competitività che doveva rompere con il passato. Si voleva passare a un modello 2.0 della politica africana ma questo tentativo rimase incompiuto: è rimasto invece il riflesso di fare ricorso all’esercito, una costante storica per delle truppe un tempo chiamate “coloniali”. 

 
In Francia resta vivo il dilemma fra l’analisi, ormai largamente condivisa, che sarebbe meglio ritirare i soldati dall’Africa per non nutrire la percezione “imperialista” associata alla presenza di truppe e l’importanza del contrasto all’espansione di zone controllate dai terroristi che potrebbero diventare nuovi califfati in grado di minacciare direttamente il continente europeo.  


Le popolazioni africane sono molto sensibili alla propaganda, spesso di origine russa, che fa della Francia il capro espiatorio di tutti i mali locali. La Francia paga quindi il conto dei propri errori, ma si ritrova anche intrappolata in una serie di dinamiche globali. L’analisi che punta il dito contro una Francia potenza “coloniale” si rivela quindi piuttosto strumentale perché mira a favoreggiare gli interessi concorrenti, essenzialmente quelli russi, che vogliono occupare spazio in Africa e che certamente non hanno la minima intenzione di promuovere un’agenda democratica. Il divorzio fra la Francia e l’Africa è ormai profondo, nel bene ma anche nel male.

   
La Francia sostiene il presidente nigerino Bazoum che sembrava fino a poco tempo fa l’ultimo alleato affidabile di Parigi nella zona del Sahel. Il Niger fornisce uranio alla Francia, che ha ritenuto importante privilegiare la continuità di una fonte di approvvigionamento che appare però come marginale e quindi facilmente sostituibile per Parigi, e il Niger era stato scelto, anche dopo l’uscita dal Mali, per mantenere una forza di circa 1.500 uomini. Per certi versi, Bazoum paga anche il fatto di apparire come troppo legato alla Francia, e vengono replicate le stesse logiche osservate in Mali e Burkina Faso.

 
I margini di manovra per Parigi sono ridotti. Qualsiasi intervento diretto darebbe forza alle rivendicazioni antifrancesi. La Francia condivide con gli Stati Uniti l’appoggio ai paesi della Ecowas che hanno costituito un fronte antigolpe e stanno cercando una mediazione, paventando anche la possibilità di un intervento sotto la guida della Nigeria, potenza regionale che non vuole vedere crescere l’instabilità nel suo vicinato. Ci troviamo di fronte a una serie di ingiunzioni contraddittorie che illustrano la fluidità della situazione attuale. Certamente Parigi non può che dare assenso a movimenti di resistenza mobilitati intorno al presidente Bazoum, che non intende rassegnare le dimissioni. La Francia sta cercando in tutti i modi di adottare un profilo basso, come si è visto con il rifiuto di dispiegare forze speciali per proteggere il presidente minacciato nonostante i servizi segreti avessero informato Parigi della situazione. Macron potrebbe dare appoggio a un eventuale intervento africano ma lo farà con la massima discrezione, anche perché ben conscio ormai quanto  il marchio francese sia diventato delegittimante in Africa.  

 
L’Italia invece si affaccia per la prima volta alla gestione di una crisi africana con un contingente presente in loco, e potrebbe essere interessante giocare di sponda con Parigi, anche perché, tutto sommato, gli obiettivi francesi sono ormai ben lontani da quelle logiche di dominio spesso paventate a Roma.

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