la legge russa

La condanna per cancellare Navalny

Per i tribunali russi, prima l'oppositore era un ladro. Adesso è un estremista

Micol Flammini

La ruspa di Putin non punisce la marcia su Mosca della Wagner, ma infligge  diciannove anni  a Navalny. Il Cremlino era alla ricerca di una punizione esemplare che fosse da monito per chiunque voglia ribellarsi e ha infierito sul corpo ormai smagrito del suo oppositore più famoso 

Ieri un tribunale di Mosca,  allestito nel complesso della colonia penale  IK-6 a circa 250 chilometri a est dalla capitale,  ha condannato Alexei Navalny a 19 anni da scontare in un carcere restrittivo a regime speciale per: finanziamento di attività estremiste, incitamento pubblico ad attività estremiste e “riabilitazione dell’ideologia nazista”. Navalny è già stato condannato per frode anni fa e sta già scontando una pena di nove anni che arrivò quando la sua fama era diventata dirompente, in seguito all’avvelenamento per cui venne curato in Germania nel 2020. Fino a ieri, Navalny era un ladro, oggi, secondo il tribunale,  è un estremista e un nazista. Per il Cremlino e per il potere russo ben prima dell’arrivo di Vladimir Putin, “nazista” è sinonimo di nemico, poco ha a che fare con l’ideologia, più con il tradimento che Stalin subì da  Hitler, che altro non fu che un calcolo sbagliato da parte del dittatore sovietico. Così gli ucraini sono nazisti, quindi nemici. Anche Navalny è un nazista, quindi un nemico che il Cremlino vuole punire con una pena che va  oltre la sopportabilità umana perché le condizioni di detenzione sono brutali. L’oppositore illustre, fastidiosissimo per Putin, che aveva osato   criticarlo ma anche ridicolizzarlo, è già in una colonia penale,  è sempre più magro, con gli occhi scavati, con i capelli radi.  Oltre a vivere da carcerato, viene ripetutamente svegliato nel cuore della notte, la sua salute si è fatta cagionevole, le visite dei parenti sono centellinate, e  diciannove anni hanno l’obiettivo di farlo scomparire: fisicamente e dalla memoria dei russi. 

 

Finora, Navalny ha trascorso 200 giorni in una cella di punizione, in un regime di totale isolamento. Era già sottoposto a un regime molto duro, ma l’intenzione del Cremlino, in questi tre anni che separano l’oppositore dalla sua prima condanna, nel frattempo è cambiata: adesso vuole infierire, accanirsi sull’oppositore e mandare un messaggio, dare prova di una condanna esemplare che sia di monito a tutti. Con l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio, Putin ha aumentato la repressione, il suo potere è una ruspa che spiana tutto ciò che ha attorno con la minaccia e la violenza, per la quale è pronto a spendere cifre astronomiche. Ieri sono usciti i nuovi dati del budget  per la Difesa e il Cremlino ha quasi raddoppiato i rubli da destinare al conflitto. Il segnale è chiaro: vuole andare avanti, è pronto a spendere l’equivalente di cento miliardi di euro  l’anno – denaro che toglierà ad altri servizi – e per farlo, probabilmente, annuncerà anche una nuova mobilitazione. Per la guerra ha bisogno di denaro e di uomini.

 

La condanna esemplare a Navalny segue la marcia della Wagner verso Mosca, segue il momento in cui Putin ha mostrato ai russi e al mondo che si può sfilare armati per le autostrade russe minacciando di arrivare al Cremlino, senza essere puniti. Impuniti. Per non farsi vedere debole, per sedare ogni voglia di ritentare l’impresa, il presidente russo ha infierito sul corpo di Navalny, che ormai è un simbolo. L’oppositore, come l’Ucraina distrutta, i suoi palazzi sfondati, i suoi rifugiati sono  la raffigurazione di quello che sta lasciando il regime russo alla Russia e al mondo. Prima della condanna, l’oppositore ha fatto un discorso – i momenti prima di ogni condanna sono preziosi per i condannati russi, vanno ascoltati. Ha detto anche lui, come Vladimir Kara-Murza, come Ilya Yashin e tanti altri, che arriverà la nuova Russia, che il regime criminale finirà. La Russia nuova, ha detto Navalny, per nascere ha bisogno di genitori dotati di coscienza e intelletto. I genitori ci sono, sono in prigione, all’estero, ma ci sono. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.