i guai del dragone

Mentre il mondo lotta contro l'inflazione, la Cina rischia la deflazione

Luciano Capone

Il pil che rallenta, i prezzi che si fermano, la fiducia di famiglie e imprese che manca. Pechino non esce bene dalla fine dei lockdown e si trova dover affrontare i tanti problemi strutturali di un'economia che rischia di impantanarsi

Mentre Jerome Powell e Christine Lagarde sono alle prese con l’inflazione e con le conseguenze di un’aggressiva politica di rialzo dei tassi, c’è un collega che ha il problema opposto. Pan Gongsheng, il tecnocrate che è stato appena nominato da Xi Jinping 13esimo governatore della Banca popolare cinese (la Banca centrale di Pechino), deve affrontare il rischio deflazione. La stagnazione dei prezzi inizia a essere persistente, sempre più visibile in vari settori e zone della Cina, un segnale che si aggiunge al rallentamento della crescita con il rischio che l’economia cinese si avviti in una spirale di bassa crescita nominale e reale da cui diventa difficile uscire: se il calo dei prezzi si consolida finisce per intaccare i profitti delle imprese, frenare la spesa dei consumatori, far aumentare la disoccupazione e accrescere il peso dei debiti. Gli effetti della deflazione cinese  “si estenderebbero in tutto il mondo, abbassando i prezzi di alcuni prodotti che paesi come gli Stati Uniti acquistano dalla Cina, ma priverebbero anche il mondo dell’importante domanda cinese di materie prime e beni di consumo, creando anche altri problemi”, ha scritto il Wall Street Journal.

 

Le pressioni deflazionistiche derivano dal rallentamento dell’economia cinese. Nel secondo trimestre del 2023 il pil è cresciuto appena dello 0,8%, in forte rallentamento rispetto al 2,2% del primo trimestre. Su base annuale, secondo i dati delle autorità cinesi, la crescita è del 6,3%, ben al di sotto delle previsioni del 7,3%. Con questo trend è probabile che l’economia cinese non riuscirà a raggiungere l’obiettivo del 5% di crescita per il 2023 fissato dal Partito comunista, che alle nostre latitudini sarebbe un tasso elevato ma a Pechino è un segno di preoccupazione. Gli ultimi dati disponibili mostrano una crescita delle vendite al dettaglio del 3,1% a giugno, in fortissima riduzione rispetto al +12,7% di maggio: è il tasso più basso da quando la Cina ha chiuso con la strategia dei lockdown contro il Covid. In stagnazione sono anche gli investimenti privati, rispetto a quelli pubblici. Un segnale di perdita di fiducia che è visibile anche nell’aumento del tasso di risparmio precauzionale da parte delle famiglie.

 

A differenza di quanto si potrebbe supporre, la stagnazione dei prezzi sta incidendo negativamente anche sul potere d’acquisto dei cinesi, perché come riporta Reuters molte imprese e anche alcune amministrazioni locali stanno tagliando i salari, alimentando di conseguenza le pressioni deflazionistiche. Un altro segnale negativo arriva dalla disoccupazione giovanile, che ha toccato il livello record del 21,3% a giugno, battendo il record del mese precedente del 20,8%. C’è poi la crisi profonda del mercato immobiliare, tra le più gravi di sempre, che ha visto crollare gli investimenti del 7,9% nel primo semestre.

 

A tutto questo si aggiunge la debolezza dell’economia globale, alle prese con lo choc energetico e la disinflazione, che penalizza l’export cinese: secondo i dati delle Dogane cinesi, a giugno le esportazioni cinesi sono calate su base annuale del 12,4% a fronte una previsione attorno al 9%. Anche in questo caso, il calo dell’export segue e intensifica  il -7,5% di maggio. I segnali di avvitamento sono evidenti, tanto che le principali banche d’investimento hanno rivisto al ribasso le stime di crescite della Cina: Jp Morgan ha tagliato le previsioni dal 6,4% di aprile al 5% di luglio. Il rallentamento degli ultimi anni, dopo il Covid, allontana anche il tanto agognato “sorpasso” sugli Stati Uniti che farebbe della Cina la prima economia del mondo: secondo i dati di Goldman Sachs riportati dall’Economist, nel 2023 il pil cinese in dollari sarà il 67% di quello americano, rispetto al 76% del 2021.

 

Per uscire fuori dal pantano, molto probabilmente Pan Gongsheng adotterà una politica monetaria più espansiva, dopo che la Banca popolare cinese già a giugno aveva effettuato un mini taglio dei tassi di 10 punti base per la prima volta in dieci mesi. All’espansione monetaria, ovviamente Pechino dovrà affiancare un importante stimolo fiscale, ma non basterà a risolvere i tanti problemi strutturali della Cina: dal fallimento delle politiche zero Covid alla statizzazione dell’economia imposta da Xi Jinping,   dalla sfida demografica alla  profonda crisi del settore immobiliare, dall’enorme mole di debiti accumulati dalle amministrazioni locali alle tensioni geopolitiche con gli Stati Uniti.  

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali