proteste e governo

Con la riforma della giustizia Netanyahu va di fretta

Micol Flammini

In Israele i giornali sono usciti con la prima pagina nera. Ecco chi avvantaggiano i cambiamenti e quali sono le prossime tappe

Ieri i quotidiani israeliani sono usciti tutti con la stessa prima pagina: una lastra nera con la scritta “un giorno nero per la democrazia israeliana”. Tutti, anche quelli storicamente schierati con il premier Benjamin Netanyahu, anche il suo fedele Israel HaYom – soprannominato da qualcuno Pravda, da altri Bibiton, dal diminutivo del premier e iton che vuol dire giornale. E’ stato un  gruppo di aziende tecnologiche in protesta a comprare lo spazio sulle prime pagine per mandare questo messaggio potente al governo. E non è una cosa da poco, visto che sotto il nome Techrael si raggruppano circa cento società tra le più importanti di Israele che dicono di sentire sulle loro spalle la responsabilità del futuro del paese e muovono parti importanti della sua economia. Il governo di Benjamin Netanyahu lunedì ha vinto la prima parte della sua battaglia per riformare la giustizia israeliana.  Ottenendo i voti necessari alla Knesset, ha fatto  approvare la prima parte della  riforma che limita la capacità della Corte suprema di annullare le decisioni del governo sulla base di un principio di “ragionevolezza”. Le proteste hanno preceduto, accompagnato e seguito l’approvazione e il premier è comparso in televisione per dire che non c’è da temere per la democrazia o per l’indipendenza della magistratura e che, anzi, la riforma è necessaria. Non è il solo a dirlo, in molti prima di lui, anche appartenenti a tutt’altro schieramento politico, concordano sulla necessità di ridefinire  i compiti  della Corte suprema e di ridefinire i rapporti tra poteri. Quello che viene contestato a Netanyahu sono  piuttosto la fretta con cui questa riforma è stata definita, la ritrosia al compromesso con tutte le forze politiche che in teoria sarebbe necessario per cambiare la legge, e soprattutto il tentativo  di presentare come ammorbidita rispetto alle intenzioni iniziali una riforma che in realtà è stata soltanto divisa in varie tappe. 

Il politologo israeliano Efraim Podoksik ha scritto sul Times of Israel che “ci sono valide ragioni per limitare la capacità della Corte suprema di intervenire nelle decisioni politiche”, ma la coalizione, cercando di “esentare le decisioni ministeriali dalla dottrina della ragionevolezza, eliminando di fatto l’effettivo controllo giurisdizionale sulle decisioni amministrative”, produrrà un cambiamento che avrà effetti negativi sulla società israeliana nel suo insieme e danneggerà soprattutto chi risiede nelle periferie del paese, quindi gli stessi elettori della coalizione. I cambiamenti demografici e politici che interessano Israele hanno colto di sorpresa il premier, che si è legato a un gruppo  di partiti che poco rappresenta il suo passato. Secondo Podoksik il rischio non è soltanto che la riforma possa essere dannosa per l’indipendenza della magistratura, ma che non sarà neppure una riforma al passo con i cambiamenti della società israeliana né più rappresentativa di tutta la popolazione. 

La riforma ha altri due obiettivi principali. Uno darebbe alla Knesset il potere di annullare le decisioni della Corte suprema con una maggioranza semplice di 61 voti su 120. L’altro invece darebbe l’ultima parola al governo per la nomina dei giudici. 

 

Netanyahu ha fretta, vuole portare a termine la sua riforma e finora non ha ascoltato nessuno. Il rischio, secondo oppositori e alcuni sostenitori, è che finisca per farsi risucchiare dai suoi alleati e dalle loro richieste che finora hanno caratterizzato i primi sette mesi turbolenti e contestati del governo. La domanda che si pongono i quotidiani israeliani, al di là della prima pagina nera, è se Netanyahu abbia ancora il controllo o se sia diventato un ostaggio della coalizione. Nadav Eyal, dello Yedioth Ahronoth, si domanda se Bibi sia in una posizione di debolezza o se sia invece un Machiavelli. I sondaggi lo stanno punendo e quei voti moderati che ha perso non li ha recuperati a destra, gli investimenti esteri stanno lasciando Israele, l’agenzia di rating Moody’s ha avvertito che la riforma della giustizia porterà a conseguenze negative per l’economia israeliana. Il rimprovero che viene mosso a Bibi non è per la riforma in sé, ma per il clima in cui la riforma viene portata avanti nonostante tutto. Sulla necessità della riforma c’è consenso, ma  la fretta e la mancanza di dialogo non vengono approvate. Gli Stati Uniti hanno già espresso le loro preoccupazioni, l’Iran invece ha già esultato per il caos: ha detto che Israele non è più una potenza in medio oriente e tutto cambierà in fretta. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.