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Dietro il caos sulla riforma di Netanyahu, lo scontro fra le due anime d'Israele

Giulio Meotti

La radicale revisione giudiziaria voluta dal presidente israeliano nasconde un conflitto tra poteri e identità. La politica del risentimento fra le sensibilità diverse che animano lo stato ebraico

Mentre crollavano gli ultimi tentativi di compromesso, la Knesset votava la tanto contestata riforma giudiziaria. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dopo essere uscito dall’ospedale per un pacemaker dichiarava: “In una vera democrazia, la mano decisiva non è quella che tiene un’arma, ma quella che mette la scheda elettorale nell’urna”. Il riferimento è ai militari che, in segno di protesta con la riforma, hanno rifiutato la riserva, il cuore dell’esercito israeliano. “Questo è un momento di emergenza”, diceva intanto il presidente Isaac Herzog.

 

Il disegno di legge limiterà la capacità della Corte Suprema di annullare le decisioni del governo sulla base della “ragionevolezza”, che secondo la coalizione di “Bibi” è un concetto troppo nebuloso e consente ai tribunali di annullare la volontà dei funzionari eletti per motivi ideologici e politici. Ma è solo il primo atto legislativo di una radicale revisione giudiziaria volta a indebolire la magistratura e dare al governo di turno maggiore influenza sulla nomina dei giudici. Se ne riparla a settembre, dopo le festività ebraiche. Intanto “Bibi” incassa anche il sostegno del ministro della Difesa, Yoav Gallant, e di dissidenti come Yuri Edelstein.  

Decine di migliaia di israeliani hanno protestato in questi giorni, contro e a favore della riforma, fino a bloccare l’entrata della Knesset. Quasi il 70 percento delle startup israeliane starebbe adottando misure per ritirare denaro e spostare parti delle proprie attività al di fuori del paese, secondo un sondaggio di Start-Up Nation Central. Oltre mille membri dell’aeronautica, tra cui centinaia di piloti di caccia, come centinaia di membri di commando d’élite e unità di intelligence, hanno dichiarato ai propri comandanti che non si presenteranno in servizio se la legge sarà approvata. 

Nello scontro sulla riforma emerge tutta la politica del risentimento fra il “primo” e il “secondo” Israele. Il giornalista di Haaretz, Uri Misgav, dopo aver appreso che i piloti stavano minacciando di abbandonare la riserva  ha detto: “I piloti se ne andranno. Con chi rimarrete? Shlomo Karhi?”. Karhi è il ministro delle Comunicazioni. E’ il primo di diciotto fratelli. Suo padre è un rabbino. Lui era studente della yeshiva e ha prestato servizio in un’unità di combattimento. E padre di sette figli. Ha conseguito un dottorato in ingegneria e pubblicato ricerche in matematica applicata e informatica su riviste accademiche. Karhi è un ebreo religioso mizrahi, pelle scura, kippa e marcato accento sefardita.

Medici, professori universitari, piloti, capitani d’industria, ex giudici della Corte Suprema e procuratori generali, ex capi dei servizi segreti sono i blocchi di potere che si oppongono a queste riforme e sono tutti feudi della “prima Israele” ashkenazita di origine europea, contro cui si scaglia la seconda Israele, che Matti Friedman in un libro chiama “Mizrahi Nation”. 

Il padre di Yair Lapid, l’ex ministro della Giustizia Yosef (Tommy) Lapid, aveva notoriamente etichettato la cultura Mizrahi (sefardita e mediorientale) come inferiore: “Non abbiamo occupato la città araba di Tulkarem, Tulkarem ci ha occupato”. Israele è una società di immigrati. E negli anni successivi alla fondazione  nel 1948, gli immigrati Mizrahi  erano in grave svantaggio sotto molti aspetti. La maggior parte di loro proveniva da società agrarie, spesso  poco istruiti, estranei alle reti economiche e culturali israeliane. Di conseguenza, gli elettori Mizrahi accorsero verso il Likud di Menachem Begin, molto più ospitale nei confronti della religione e della tradizione, molto più aggressivo in politica estera e molto più impegnato in un’economia di libero mercato che avrebbe avvantaggiato gli immigrati. Dopo lo shock della guerra dello Yom Kippur, che indebolì la fiducia del pubblico nel Partito laburista da sempre al governo, il Likud vinse le elezioni del 1977 grazie ai Mizrahi. 

I giudici della Corte Suprema provengono da sempre da ambienti ashkenaziti, come i piloti dell’aeronautica militare –  che hanno guidato la protesta contro il governo –  sono l’epitome dell’élite ashkenazita. Una icona della cultura israeliana, Joshua Sobol, durante la campagna elettorale contro Netanyahu, ha definito gli ebrei religiosi “stupidi che baciano le mezuzah”. La mezuzah è l’astuccio che contiene il rotolo di pergamena montato sugli stipiti delle case. Di contro c’è il popolo del rabbino Ovadia Yosef, che non risparmiava attacchi feroci alla Corte Suprema, (“non tiene conto dell’essere umano, le interessa solo il potere”). 

Non importa che anche a livello di leadership, il Likud rimanga dominato da un’aristocrazia ashkenazita di destra, come lo stesso ministro della Giustizia artefice della riforma, Yariv Levin. I blocchi pro e anti Netanyahu rappresentano un grande divario sociale, economico e culturale (sebbene i matrimoni in Israele siano per un terzo misti). Secondo l’ultima ripartizione post elettorale pubblicata dal sito di sinistra Davar, i partiti della coalizione di destra  hanno il voto degli elettori nella metà inferiore socioeconomica di Israele. I partiti ortodossi degli ebrei più poveri, il Likud e il sionismo religioso della classe medio-bassa. Al contrario, i partiti dell’opposizione – Yesh Atid, Labour e il Partito di Unità nazionale – sono i partiti degli israeliani ricchi. Yesh Atid di Lapid da solo ha il 40 per cento della più alta fascia socioeconomica. Allo stesso modo, Labour e Meretz di sinistra hanno i migliori risultati nei segmenti socioeconomici più alti. 

La magistratura è dunque, agli occhi della destra, l’ultimo ostacolo che si frappone al rovesciamento del “vecchio ordine” e al completamento della rivoluzione iniziata da Begin, in quello che fu il primo trasferimento politico di potere in Israele. Intanto c’è stato un  aumento del numero di membri della Knesset mizrahi, i cui genitori sono arrivati da stati islamici, e anche del numero di ministri mizrahi.  Su 32 ministri, 19 sono mizrahim, il 60 per cento. Se si guarda alla Knesset com’era negli anni Novanta, capiamo l’entità del cambiamento. E la politica del risentimento.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.