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periferie

Perché la crisi identitaria francese si è fatta così profonda

Mauro Zanon

Lo storico George Bensoussan ci porta nei “territori perduti” delle Banlieue in cerca di una volontà politica

Nel 2002, tre anni prima delle rivolte nelle banlieue francesi che misero a dura prova la presidenza Chirac, lo storico Georges Bensoussan diresse un’opera collettiva, “Les Territoires perdus de la République”, che ancora oggi è un punto di riferimento per capire cosa accade al di là del périphérique, la cintura stradale che avvolge Parigi, in quei territori dove è in corso un separatismo culturale e identitario che un certo mondo politico-intellettuale si ostina a non vedere. I recenti tumulti dopo l’uccisione del giovane Nahel hanno rilanciato il dibattito sulle periferie e sul loro stato a 18 anni dai fatti di Clichy-sous-Bois. “Ci sono, fondamentalmente, due punti in comune tra le rivolte del 2005 e quelle di tre settimane fa:  il punto di partenza è stato in entrambi i casi la morte di un giovane francese proveniente da vecchie comunità di immigrati, da una gioventù che ritiene di essere vittima di una politica di segregazione dello stato. L’ultrasinistra e gli islamisti alimentano questo fuoco che applica lo schema coloniale della Francia del XIX  secolo al presente, per pervenire a una logica di secessione del territorio”, dice al Foglio George Bensoussan. “La seconda somiglianza sta nella giovane età dei rivoltosi: un terzo delle persone fermate sono minorenni e fra loro c’è un gran numero di tredicenni e quattordicenni. Ciò fa emergere i problemi dell’istruzione e delle strutture familiari, mette in luce, su uno sfondo di povertà, il numero impressionante di famiglie monoparentali (donne sole che crescono i loro figli), ma anche il ruolo del maschio nelle famiglie di cultura maghrebina. Sono fattori che rientrano nel campo dell’antropologia culturale, accanto a fattori sociali più noti. La differenza più importante è il ‘saccheggio immediato’ e un odio verso la Francia espresso in maniera brutale. Ma anche l’organizzazione dei rivoltosi (a volte informati dei movimenti della polizia), di gran lunga migliore rispetto al 2005 grazie ai social network”. 

Secondo Bensoussan, “l’integrazione, e più ancora l’assimilazione, non funzionano per ‘una parte’ di questa gioventù, immigrati di terza generazione”. “Sono dei francesi a portare avanti un discorso di odio nei confronti del paese che ha accolto i loro genitori e i loro nonni, e che si rivendicano figli di un altrove fantasticato e di un’identità di musulmana sventolata come l’antitesi del ‘mondo bianco’, occidentale e francese”, spiega lo storico. “All’origine di questo disastro, ci sono i flussi migratori di massa che, a forza di raggruppare le popolazioni, hanno prodotto un isolamento e un sentimento di esclusione dalla nazione che, dicono, frenerebbe e impedirebbe l’integrazione. E’ il tenore del loro discorso. L’immigrazione di massa ha compromesso le possibilità di assimilazione, la quale è possibile soltanto a piccoli gruppi sul territorio nazionale. I raggruppamenti di popolazione hanno fatto nascere le ‘enclavi’. Quando viene superata una soglia demografica, l’identità d’origine prevale su quella del paese di accoglienza”. 

 In secondo luogo, continua Bensoussan, va tenuto in considerazione “il risentimento anti coloniale di una parte di questa gioventù, in particolare quella venuta dall’Algeria, dove il risentimento anti francese (e l’antisemitismo disinibito dietro l’ostilità verso lo stato di Israele) imperversa nel quotidiano”. “Il presidente Macron l’aveva detto, il regime algerino campa sulla rendita memoriale della guerra d’Algeria e i suoi errori per giustificare sessant’anni di fallimento totale. In terzo luogo, l’ultrasinistra è parte in causa in questo incendio, perché ha generato delle correnti ‘decoloniali’ influenzate dalle università americane che riproducono in Francia il risentimento della minoranza nera negli Stati Uniti. E alimenta il mito di una colonizzazione interminabile e di una decolonizzazione impossibile (la guerra d’Algeria soprattutto) per giustificare la ‘secessione’ degli uni e allo stesso tempo l’esistenza politica degli altri. Le polemiche sull’espressione ‘grande sostituzione’ distolgono l’attenzione dell’opinione pubblica dalla gravità di una questione che ha cambiato il volto del paese. E’ l’illustrazione quasi perfetta dell’adagio cinese secondo cui ‘quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito’”. 

Nei giorni di massima tensione delle rivolte, si è parlato molto del piano Borloo per le banlieue, dal nome dell’ex ministro con delega alle Aree urbane di Chirac, che nel 2018 aveva presentato al presidente francese, Emmanuel Macron, un piano che, secondo molti, avrebbe potuto dare una scossa, cambiare veramente le cose. Le proposte di Borloo, tuttavia, sono state cestinate dall’inquilino dell’Eliseo. “Negli ultimi trent’anni, ci sono stati quattordici piani per le banlieue, e forse il piano Borloo era uno dei più ambiziosi. Ma come molti altri chiede alla scuola, alla polizia, all’ospedale, di trattare a monte, ossia troppo tardi, gli effetti di una politica migratoria disastrosa. Abbandonando qualsiasi scrupolo ideologico, bisognerebbe guardare ciò che fanno i paesi scandinavi, che hanno adottato politiche pragmatiche per salvare il loro modello di società, senza cedere al ricatto dell’‘estrema destra’”, dice Bensoussan. Secondo cui il goscismo culturale ha una “responsabilità considerevole” in ciò che è accaduto in questi ultimi anni e continua a accadere. “Questo ‘goscismo culturale, che è  pregnante nelle fasce della piccola e media borghesia istruita e ben educata, ma socialmente precaria, porta avanti una visione astorica della storia. Alcuni dei suoi ragionamenti non vanno oltre le visioni puerili dell’adolescenza. Promuovendo un mondo integralmente aperto e il diritto assoluto dei ‘migranti’ a stabilirsi ovunque essi desiderino, questo movimento di pensiero è il più solido alleato del grande padronato francese”, spiega  Bensoussan. E aggiunge: “Da decenni, questa coppia, che difende la visione di un mondo senza frontiere, cammina mano nella mano. E’ questa visione del mondo che viene difesa in maniera insidiosa dalla maggioranza dei media francesi. E’ il mondo delle metropoli, numericamente minoritario, ma culturalmente e mediaticamente maggioritario. E’ questo mondo che fissa le norme che valgono agli uni il tappeto rosso e agli altri l’abisso della morte sociale”. Ma nessuna battaglia è persa  “se c’è la volontà politica”, conclude Bensoussan. “A condizione di chiamare le cose con il proprio nome, di definire la realtà e di darsi gli strumenti per riprendere il controllo del proprio destino. Non dimenticando questa regola elementare della politica: non sono io che scelgo il nemico, è il nemico che mi designa. E quando la guerra è dichiarata, è meglio vincerla”.

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