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I tabù di Taiwan e il viaggio in America del candidato Lai

Giulia Pompili

Il candidato alla presidenza del Partito democratico progressista, William Lai, prepara il viaggio in America. La Cina invia altri caccia attorno all'isola. Lo scontro tra democrazie e autoritarismi avrà un nuovo volto dopo le elezioni a Taiwan del gennaio 2024 

I due giorni di Congresso nazionale del Partito democratico progressista di Taiwan, uno dei momenti più rappresentativi della democrazia taiwanese che si è concluso domenica, sono stati salutati dalla Repubblica popolare cinese con undici aerei militari e sei navi da guerra inviati attorno all’isola. La Repubblica popolare di Cina, il nome formale di Taiwan, che Pechino rivendica come proprio territorio anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata, ha reagito come fa dallo scorso anno, da quando cioè la Repubblica popolare cinese ha aumentato le pressioni militari sullo Stretto: ha inviato aerei da guerra a pattugliare il suo spazio aereo e seguito le manovre cinesi dai radar. Ma ogni volta che Taiwan mostra il suo lato più democratico c’è sempre una reazione e un aumento dei toni minacciosi da parte delle autorità di Pechino. E’ successo soprattutto in corrispondenza con  questo Congresso  del Partito democratico progressista, che governa il paese dal 2016, perché è l’ultimo prima delle elezioni generali che si terranno a gennaio prossimo. La presidente Tsai Ing-wen, nei suoi due mandati alla guida del paese, è diventata il volto della nuova Taiwan, quella riconoscibile nel mondo, che non è soltanto “l’altra Cina” ma soprattutto un paese che ha costruito una sua identità fatta di stato di diritto, progressismo, democrazia. Tsai non è più candidabile per limiti costituzionali, e il suo successore è Lai Ching-te, alias William Lai, che sin dal 2019 è il vicepresidente di Taiwan. 
“La Cina si oppone fermamente a qualsiasi forma di interazione ufficiale tra gli Stati Uniti e la regione di Taiwan, e si oppone fermamente a qualsiasi visita dei separatisti ‘indipendentisti di Taiwan’ negli Stati Uniti. Abbiamo presentato serie rimostranze alla parte statunitense”, ha detto ieri Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino. Il fatto è che ieri il governo di Taipei ha ufficializzato la visita di Lai in Paraguay per l’insediamento del presidente Santiago Peña il 15 agosto, e secondo il Financial Times il candidato alla presidenza taiwanese farà una sosta, prima e dopo il suo viaggio sudamericano, negli Stati Uniti. E’ una consuetudine per tutti i candidati dei paesi alleati vicini a Washington, ma solo un candidato taiwanese non può andare nella capitale federale americana – per evitare di urtare oltremodo la Cina e perché Taiwan non è un paese formalmente riconosciuto. William Lai probabilmente farà quello che ha fatto anche Tsai Ing-wen: sosterà forse a New York, incontrerà alcuni rappresentanti del Congresso, avrà colloqui informali con mediatori della Casa Bianca, ma anche solo questa “interazione” è considerata inaccettabile per Pechino. 


William Lai, sessantatré anni, studi in Medicina e Salute pubblica, durante la crisi dello stretto di Taiwan del 1996 decise di lasciare la professione per dedicarsi alla politica. E’ considerato un “verde scuro”, un’espressione usata per definire chi dall’area progressista (a cui corrisponde il colore verde, mentre ai conservatori del Kuomintang è assegnato il colore blu) ha idee un po’ radicali. E quando si parla di idee radicali a Taiwan la parola tabù è soltanto una: indipendenza. Negli anni Novanta Lai è stato tra i più apprezzati membri del Parlamento taiwanese, lo Yuan legislativo, e dopo aver fatto un primo mandato da sindaco di Tainan è stato rieletto con il record di oltre il 72 per cento di preferenze. Il suo apprezzamento popolare gli ha spianato la strada per la politica nazionale, e nel 2017 è diventato premier del gabinetto di Tsai Ing-wen e poi, dopo averla sfidata alle primarie senza successo, suo vicepresidente. Al di là della sua carriera, l’aspetto più controverso del candidato del Partito democratico progressista di Taiwan è il suo sostegno all’indipendenza, che rischia di rompere il delicatissimo status quo nello Stretto. Per questo sta cercando di ricostruirsi un’immagine internazionale. Il 4 luglio scorso William Lai ha pubblicato un editoriale sul Wall Street Journal dal titolo “Il mio piano per preservare la pace nello Stretto di Taiwan”: “I caccia e le navi dell’Esercito popolare di liberazione continuano a muoversi intorno a Taiwan nel tentativo di influenzare le nostre elezioni democratiche”, ha scritto. “Le tensioni economiche persistono. Ogni giorno ci viene ricordato che non possiamo mai dare per scontate la nostra libertà e la nostra democrazia. Ma il mio impegno è chiaro oggi come 27 anni fa: lavorerò sempre per la pace e la stabilità per il popolo di Taiwan e per la comunità internazionale”, che significa: nessuno per il momento menzionerà la parola tabù, “indipendenza”, ma il resto del mondo deve aiutarci a mantenere lo status quo, contro il bullismo antidemocratico cinese. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.