la storia

La vittoria di Samia Hamasi contro i talebani

Cristina Giudici

Giocava nella nazionale di calcio femminile afghana, ma i talebani hanno vietato tutto, anche i sogni di una adolescente. La fuga da Kabul, poi l’Italia, infine la Germania, e una nuova maglia da indossare

Quattordici, diciassette e undici. Sono questi i numeri che hanno scandito la vita di Samia Hamasi, l’atleta afghana che ha sfidato i talebani per restare su un campo di calcio. 
Quattordici è il numero della maglia che ha indossato nella nazionale femminile di calcio formata nel 2007 per promuovere l’emancipazione sportiva nel paese parzialmente liberato dal primo regime talebano dall’alleanza atlantica. Diciassette è quello della nazionale femminile afghana under 17 che ha allenato dal 2020 fino allo sciagurato ritorno dei talebani al potere. Undici, invece, è il numero della maglia che è riuscita a indossare di nuovo nella squadra tedesca VFL Bienrode a Braunschweig, nel land della Bassa Sassonia.

 

    

Seduta sul divano di un monolocale, capelli sciolti e lunghi fino alle spalle e tinti di biondo, Samia Hamasi parla un po’ in inglese e un po’ in tedesco. Si è collegata su Skype per mantenere una promessa che mi aveva fatto due anni fa, quando ci siamo conosciute per caso nel settembre del 2021 in un centro di accoglienza milanese dove aveva trovato rifugio dopo la caotica e drammatica evacuazione dall’Afghanistan. Ci siamo ritrovate di nuovo per caso, dopo che mi ha cercato per chiedermi di aiutare la sua famiglia rifugiata in Italia. Quando l’ho incontrata, era riuscita a scappare grazie all’aiuto di un’associazione, Pangea, e a salire su un aereo preso da assalto dagli afghani mentre i talebani puntavano i fucili contro il suo corpo minuto. Aveva 24 anni, sembrava impaziente, non riusciva a stare ferma ad aspettare che il destino decidesse quale sarebbe stato il suo futuro in Europa. Aveva sfidato i talebani che, per impedire alle donne di giocare a calcio, nel 2019 fecero un attentato al quartiere generale della Federazione a Kabul. Magra, decisa, espressione volitiva, mi aveva mostrato il video dell’edifico sventrato, la coppa vinta nel campionato nazionale e le immagini della sua squadra. In quel breve e casuale incontro mi aveva detto che avrebbe voluto giocare a calcio con il Milan. Ci siamo lasciate con una promessa: rivederci qualche giorno dopo per parlare della travagliata storia della sua vita di calciatrice e allenatrice; della battaglia contro la famiglia per entrare in un campo da calcio e della fuga da Kabul. Una promessa che non è riuscita a mantenere perché poche ore dopo è scomparsa. Finché non mi è arrivato un suo messaggio su WhatsApp: “Ho preso un treno per Hannover, ho avuto dei problemi, ti spiegherò”, mi aveva scritto prima di scomparire di nuovo.

Ventuno mesi dopo Samia Hamasi siamo riuscite a parlare di nuovo via Skype, e durante una lunga conversazione in cui Samia Hamasi, mescolando l’inglese che ha dimenticato e il tedesco che sta studiando ogni mattina a scuola grazie al sostegno del governo tedesco che l’ha accolta, ha raccontato finalmente tutta la sua storia in esclusiva per il Foglio. E’ quella di una giovane donna che sin da piccola ha preso la vita a morsi. Oggi ha ventisei anni, e negli occhi ha lo stesso guizzo che mi aveva colpito nel settembre del 2021.

 

     

“Ho iniziato a giocare a calcio quando avevo 13 anni, a Kabul, dove sono arrivata dalla provincia di Kapisa. L’ho fatto perché nel mio paese, anche prima che tornasse il regime dei talebani, era difficile per una ragazza partecipare alla vita sociale. L’ho fatto perché mi piaceva correre, l’ho fatto perché sono brava”, dice con un tono scanzonato. Mi parla di come ha iniziato a inseguire un pallone quando aveva 13 anni, nonostante la sua famiglia fosse contraria – tranne sua madre, che la incoraggiava a non ascoltare nessuno e a realizzare i suoi sogni. “Sono stata ispirata dal manga Capitan Tsubasa (in Italia Holly e Benji): uno studente di 11 anni profondamente innamorato del calcio che sogna di vincere un giorno la Coppa del mondo Fifa per il Giappone. Il suo motto, la palla è mia amica, è diventato anche il mio”. Samia Hamasi ha cominciato a giocare quando frequentava il centro della fondazione Aschiana per figli orfani:  lei era orfana di un padre ammazzato dai talebani al confine con l’Iran quando aveva solo due anni. “Prima giocavo a pallavolo, ma quando ho visto dei ragazzi correre dietro un pallone sono rimasta folgorata. Mio zio e mio fratello si misero di traverso, dicevano che una ragazza non poteva giocare a calcio, che era proibito dal Corano, ma io sono andata avanti nonostante le avversità”. Nel 2011 è entrata nella Federazione nazionale femminile di calcio che ha sempre subito diverse pressioni e minacce dai talebani per impedire alle donne di continuare a giocare.  “Non era facile neanche prima dell’arrivo degli studenti coranici al potere, ma non abbiamo mai mollato”, afferma con l’espressione soddisfatta di chi nella vita ha vinto tante sfide e morde il freno per vincerne altre. E’ stata in quattordici paesi per il campionato asiatico: in Pakistan, Qatar, Uzbekistan, Giordania, Kuwait e in Giappone, dove si è dipinta il numero 14 sul viso prima di entrare in campo. E’ stata centrocampista, un po’ in difesa e un po’ in attacco, come ha sempre fatto anche nella sua vita fino ad ora. “Poi ho allenato la squadra under 17 e anche i bambini orfani della fondazione Aschiana che mi ha salvato la vita”. E quando scoppiò lo scandalo nel 2018 sugli abusi sessuali nella nazionale femminile che travolse l’emblema dell’emancipazione femminile, lei non è stata zitta e ha dichiarato: “Ora la gente pensa che tutti i membri della squadra di calcio subiscano abusi, il che ha ci ha reso la vita difficile, ma si devono identificare le vittime e i responsabili”.

Quando i talebani stavano per entrare a Kabul, la federazione nazionale di calcio le ha chiesto di bruciare o distruggere immediatamente le coppe, le medaglie e le magliette; i ritagli di giornale e il certificato della sua laurea in Scienze politiche, “ma ho deciso di conservare alcune maglie e le ho portate con me in Europa”, racconta oggi Samia con una risata squillante. “Le porto sempre nello zaino, vuoi vederle?”, chiede. E poi si incupisce quando ricorda l’istante in cui ha smarrito la sua famiglia fra la folla che la spingeva verso l’aeroporto dopo l’arrivo dei talebani a Kabul. Un istante col terrore di essere riconosciuta, essere costretta a restare in Afghanistan, non poter mai più entrare in un campo da calcio e non vedere mai più sua madre. Dopo tre giorni passati nell’aeroporto di Kabul senza mangiare né bere, improvvisamente è arrivata la sua chance per partire, atterrare a Francoforte e poi in Italia per ritrovare la sua famiglia, accolta in Brianza. Della sua permanenza in Italia dice: “E’ stato un brutto momento”. Samia Hamasi ha lasciato l’Italia perché nel centro accoglienza dove aveva trovato rifugio, a Milano, non poteva spostarsi per vedere la famiglia, gli uomini ospiti del centro bevevano e la infastidivano. Aveva paura. E lei non voleva più avere paura. Alla sera non poteva chiudersi a chiave nella stanza e temeva di essere aggredita o peggio, finché una famiglia afghana l’ha portata con sé sul treno per la Germania, ad Hannover, e poi è stata mandata a Braunschweig, dove la sua fame di futuro, libertà e calcio è stata in parte saziata.

Nel settembre del 2021 mi aveva detto, con un’espressione cupa e rabbiosa: “A Kabul ho studiato all’università Scienze politiche. Per colpa dei talebani ho buttato via anche quattro anni di studio. Li odio. Spero che prima o poi spariscano dalla faccia della terra”.

Oggi invece Samia sorride e ride quasi sempre. Le sue ex compagne di squadra sono state accolte in Australia, in Canada e in Portogallo. Le loro strade si sono divise e lei è andata avanti da sola con un solo obiettivo: tornare in campo. E ci è riuscita  grazie a Gerd Hoffmann, membro della sezione calcio della società sportiva VfL Bienrode, che l’ha aiutata a entrare nella squadra di uno dei club  della città in cui vive.  Ogni giorno si alza presto, va a scuola dove per cinque ore studia la lingua tedesca, nel pomeriggio frequenta un centro della Caritas dove i rifugiati parlano dei loro problemi e dove lei può condividere la sua pena per il paese che ha lasciato alle spalle: privato della libertà, impoverito e dilaniato dalla violenza dei talebani. Due volte alla settimana si allena e ogni domenica scende in campo con la squadra Vfl Bienrode. “Gioco come ala destra”, dice con orgoglio. E ora che ce l’ha fatta a tornare su un campo da calcio, ad aprirsi una strada grazie alla sua forza di volontà e all’accoglienza fattiva della Germania, è diventata un esempio per la sua famiglia. “Quando ho cominciato a giocare a Kabul, mio fratello era contrario. Una domenica però l’ho visto sugli spalti a fare il tifo per me e mi si è sciolto il cuore”, ricorda. E adesso è diventata l’emblema della donna forte, emancipata, per sua madre, i suoi due fratelli, le sue cinque sorelle e i nipoti che vivono in Italia. Dell’altra parte della sua famiglia rimasta in Afghanistan, tradizionalista per usare un eufemismo – che la considera una donna perduta e una cattiva musulmana perché è andata all’università ed è diventata calciatrice – non vuole parlare: “Li ho bloccati su WhatsApp. Non voglio saperne nulla, non li perdonerò mai, tanto non tornerò mai più in Afghanistan”, dice con un timbro di voce duro. Poi racconta di essere una single convinta e lo annuncia con la  risata di una ventiseienne che scoppia di vita. “Per ora voglio imparare bene il tedesco, arrivare a competere in una squadra di professionisti nel campionato tedesco”.

   

   

Samia Hamasi sa che se fosse rimasta in Italia non avrebbe avuto le stesse opportunità che ha avuto  in Germania. A Braunschweig ha una sola amica che è afghana. “One friend is a good friend”, dice. “Non voglio frequentare altri afghani e parlare farsi, devo perfezionare il tedesco, perché devo studiare e lavorare. Nella mia squadra sono l’unica rifugiata ma senza una buona padronanza della lingua non posso andare avanti, studiare per prendere la certificazione di allenatrice. Ho 26 anni, non potrò giocare a lungo, dovrò per forza tornare ad allenare. Vorrei andare nelle scuole a raccontare la mia storia e allenare le giovani promesse del calcio”. Samia si accarezza le ciocche di capelli diventati biondi chissà se per assomigliare un po’ alle sue coetanee tedesche e osserva: “Io non metto il velo. il Corano non lo prescrive, solo i talebani lo sostengono perché sono ignoranti e criminali. Però ogni tanto prego, qui a casa mia. Nell’appartamento che ho trovato da sola. L’affitto lo paga il governo tedesco che mi sta aiutando a studiare e a integrarmi”. Alla mia domanda sul motivo per cui ha le pareti spoglie senza fotografie né quadri, lei scatta in piedi e mi chiede di aspettare. Prende uno zaino e tira fuori due poster delle sue due squadre preferite: il  Bayer Monaco e il Milan. E poi diversi disegni che rappresentano la proiezione del suo peggiore incubo. Cioè come sarebbe stata la sua vita se non fosse riuscita a salire su un aero diretto in Europa. In un autoritratto tiene gli occhi chiusi, indossa il burqa e nelle braccia tiene un pallone che stringe al petto, mentre due talebani armati alle sue spalle la sorvegliano. In un’altra illustrazione guarda rassegnata un talebano con lo sguardo minaccioso che tiene nella mano destra un fucile e in quella sinistra una frusta.  “Mi piace disegnare: lo facevo prima di partire sin da quando ero piccola e ora ho ripreso al centro della Caritas”, spiega. “In questi disegni ho immaginato cosa sarebbe successo se non fossi riuscita a prendere l’aereo durante l’evacuazione. Si tratta di un brutto ricordo di quei momenti tragici all’aeroporto che ho voluto rielaborare per ricordarmi cosa ho lasciato dietro le spalle e la lotteria che ho vinto quassù in Germania”. Nel paese europeo, che ha accolto trentamila rifugiati afghani, adesso è libera di giocare e di creare il suo futuro, quello che ha conquistato dopo il viaggio in aereo e la fuga da un’Italia immobile, e dove probabilmente sarebbe ancora in un centro di accoglienza, parcheggiata ad aspettare di riprogettare una nuova vita.

 Nel febbraio del 2022 ha annunciato la sua prima vittoria in Germania, pubblicando un messaggio su Twitter: “Con l’arrivo dei talebani avevo perso ogni speranza di ricominciare gli studi e lo sport. Ma oggi, dopo quattro mesi di sforzi e allenamenti, ho iniziato ufficialmente la mia formazione nella squadra VFL Bienrode nel campionato femminile del land della Bassa sassonia”.

Provo un senso di immensa gratitudine per Samia Hamasi perché ha una forza interiore talmente grande che riesco solo a sfiorare. Ora la vedo su Skype, dall’appartamento che lei può chiamare finalmente casa, a Brawnschweig. Orgogliosa di aver mantenuto anche la promessa che aveva fatto a sé stessa, dopo la fuga da Kabul, di tornare su un campo da calcio e poter dire: “Ogni sera bisogna andare a dormire con un sogno e svegliarsi con un gol”. 

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