Samuel Alito (Chip Somodevilla / Getty Images)

L'intervista

“Siamo bersagli di assassini”. Parla Alito, giudice della sentenza Usa sull'aborto

Marco Bardazzi

“Il diritto all’interruzione di gravidanza era frutto di una errata idea di libertà. Abbiamo vissuto decenni di errori”, dice al Foglio l’autore del verdetto della Corte suprema americana

Per mezzo secolo in America si sono praticati aborti legali tutelati da un presunto diritto costituzionale basato su un’interpretazione errata di cosa significa “libertà”. Un gigantesco equivoco nazionale, reso possibile dalla storica sentenza Roe contro Wade del 1973. “Era una decisione sbagliata, enormemente sbagliata. Un errore che andava corretto, ed è quello che abbiamo fatto”: parola di Samuel Alito, uno dei nove giudici della Corte suprema degli Stati Uniti, l’autore un anno fa di un’altra sentenza che passerà alla storia. Con la decisione Dobbs contro Jackson del 24 giugno 2022, approvata per 6-3 con le motivazioni della maggioranza firmate da Alito, è stata cancellata Roe e con essa il presupposto che ha permesso a circa un milione di aborti legali all’anno, negli ultimi 50 anni, di avvenire sotto la tutela della Costituzione. Una sentenza che sta avendo enormi ripercussioni anche politiche in America e che ha cambiato la vita dei giudici supremi, sotto attacco e delegittimati come non mai. Al punto da spingere Alito, uno che pesa con cautela ogni parola, a lanciare un’accusa pesantissima in una intervista al Foglio: la fuga di notizie sul sito “Politico”, che lo scorso anno ha preceduto di sei settimane la pubblicazione della sentenza, può essere stata fatta “per dare una ragione razionale per uccidere uno di noi giudici” e bloccare il caso Dobbs.

 

Parlare di delitti politici negli Usa è sempre una faccenda delicata, vista la storia del paese. Quattro dei 45 presidenti sono stati assassinati mentre erano in carica, due sono stati feriti, una cinquantina di politici sono morti in attentati, così come sei giudici federali, insieme a leader dei diritti civili come Martin Luther King e personaggi del mondo della cultura (Salman Rushdie è un recente sopravvissuto). Finora la Corte suprema sembrava immune da questi rischi, ma la sentenza sull’aborto ha cambiato tutto. Insieme al clima politico surriscaldato di un paese dove nel 2021 si è dato l’assalto alla sede del Congresso per cercare di bloccare la ratifica di un’elezione presidenziale assolutamente corretta. E anche per uccidere Mike Pence, il vicepresidente di Donald Trump, colpevole solo di aver svolto il suo dovere con la ratifica. In questo scenario, se un giudice della Corte suprema lancia un allarme sul rischio di omicidi di alto profilo, va preso estremamente sul serio e va capito il contesto. Qualche settimana fa, in quella che finora era l’unica intervista che aveva concesso dopo la sentenza Dobbs, Alito ha detto al Wall Street Journal che lui e i suoi colleghi erano stati fatti diventare “targets of assassination”, obiettivi da mettere nel mirino per invogliare qualcuno ad ucciderli. Adesso, al Foglio, Alito spiega e approfondisce quell’allarme, ripercorre il ragionamento della sentenza Dobbs nel suo primo anniversario e riflette sulla situazione del dibattito nel paese, in un anno che precede la corsa alla Casa Bianca del 2024.

 

Per parlare con il giudice occorre lasciare una Washington semideserta e con gli uffici vuoti, come ormai ogni grande città americana nell’epoca del lavoro a distanza, e recarsi lontano dal centro della capitale e dall’edificio a colonne doriche che ospita la Corte suprema. Occorre raggiungere una località presidiata dagli agenti federali del corpo degli U.S. Marshals, che risulta schermata e pixelata anche sulla Street View di Google Maps. Misure di sicurezza che si capiscono parlando con Alito e ripercorrendo il periodo passato dalla sentenza Dobbs. “Questo è stato un anno unico e tumultuoso”, spiega. “Ci sono stati problemi di sicurezza, in particolare nelle sei settimane trascorse tra la fuga di notizie sulla bozza della decisione sul caso Dobbs e il giorno in cui è stata annunciata”. Quel “leak” nel maggio 2022 è destinato a sua volta a passare alla storia, perché è stata la prima volta che dall’austero e riservatissimo palazzo della Corte qualcuno ha fatto arrivare alla stampa una copia integrale di un provvedimento non ancora pronunciato. Una violazione enorme delle procedure che proteggono il lavoro dei giudici e le loro camere di consiglio.

 

Il testo è finito su “Politico” ed è risultato poi, sei settimane dopo, quello autentico della sentenza. Un’indagine interna durata molti mesi si è conclusa senza identificare il responsabile. “Durante quel periodo prima dell’annuncio della decisione”, dice Alito, “qualcuno che avesse voluto prevenire il caso dall’essere deciso nel modo in cui pensavano che sarebbe stato poi deciso, aveva una ragione razionale per provare a uccidere uno di coloro che erano ritenuti essere parte della maggioranza. In questo modo, c’era la possibilità di cambiare l’esito del caso”. Cioè bloccare l’uscita della sentenza, renderla in qualche modo non più valida per la morte di uno dei sei giudici conservatori che l’avevano appoggiata, ma che non si erano ancora ufficialmente espressi. Una fuga di notizie insomma voluta da qualcuno che ha pensato di istigare all’omicidio, pur di fermare il percorso giuridico di una sentenza che ha cambiato completamente l’approccio americano al tema dell’aborto. Un’ipotesi che si basa anche su un dato di fatto: almeno in un caso, in quelle sei settimane c’è chi ci ha provato. “C’è stato un uomo – spiega il giudice – che apparentemente aveva questo pensiero in mente quando è andato armato di una pistola a casa del giudice Kavanaugh e ha pianificato di fare irruzione nell’abitazione, uccidere Kavanaugh e forse anche membri della sua famiglia. Una cosa molto brutta”.

 

Il caso a cui si riferisce Alito è avvenuto l’8 giugno 2022 e ha avuto per protagonista il ventiseienne Nicholas John Roske, che era volato dalla California al Maryland per uccidere Brett Kavanaugh, uno dei tre giudici nominati alla Corte Suprema da Trump. Roske è stato arrestato davanti alla casa di Kavanaugh dagli agenti federali che l’avevano appena messa sotto sorveglianza. Con sé aveva una pistola Glock-17, un coltello da combattimento, spray al pepe e fascette di plastica per immobilizzare le persone. Dalle indagini è emerso che puntava ad eliminare due, forse tre giudici della maggioranza conservatrice della Corte e a venir ricordato così come un nuovo Lee Harvey Oswald, l’assassino di Jfk. O forse un John Hinckley, lo squilibrato che sparò a Ronald Reagan per farsi notare – a suo dire – dall’attrice Jodie Foster. 
“Le misure di sicurezza per tutti noi giudici”, riprende Alito “sono state aumentate in modo veramente rilevante. È una cosa che ha imposto un grande peso e molti costi alle nostre forze di polizia. Alla Corte abbiamo il nostro corpo di polizia che ci protegge, insieme allo U.S. Marshals Service, che sta fornendo protezione 24 ore su 24 alle nostre residenze. Un dispiego enorme di risorse, che si accompagna a forti restrizioni su dove possiamo andare e dove possiamo parlare”.

 

Sì, perché alle misure di sicurezza si aggiunge adesso anche il clima incandescente nel quale si trovano immersi da un anno i giudici di Washington. Alito racconta un caso che rende l’idea della situazione e che riguarda solo i giudici conservatori della Corte, non i loro colleghi progressisti. “Ci sono molti posti”, spiega “dove alcuni di noi non possono più andare a parlare senza creare un sacco di proteste che provocano disordini. Nel maggio dell’anno scorso, una settimana dopo la fuga di notizie su Dobbs, per esempio, ho tenuto un discorso alla Scalia Law School (che prende il nome del giudice Antonin Scalia, il celebre collega di Alito scomparso nel 2016, ndr) della George Mason University di Arlington, in Virginia, dall’altra parte del fiume rispetto a Washington. Avevo programmato di andare là e tenere il discorso di persona. Ma la nostra polizia ha parlato con la polizia del college e con quella di Arlington e si è sentita dire: ‘Non è una buona idea che venga qui, le proteste sarebbero troppo forti e non pensiamo di riuscire a gestirle’. E quindi non sono andato e ho parlato via Zoom. E anche così, le proteste all’esterno della sala erano così rumorose che le potevano sentire sia le persone in sala, sia noi su Zoom. Questo è ciò che alcuni di noi possono aspettarsi se decidono oggi di andare a parlare in un qualsiasi campus universitario. Magari le cose si calmeranno, ma per ora è così”.

 

Il clima politico, nell’anno trascorso dalla sentenza, è diventato se possibile ancora più rovente. La decisione sul caso Dobbs ha reso l’aborto un tema che adesso riguarda i singoli stati, nonostante alcuni tentativi dell’amministrazione Biden di controbattere con provvedimenti di tutela federale dell’interruzione di gravidanza. I democratici, dopo un iniziale disorientamento per la scomparsa di un caposaldo delle loro politiche sociali quale era stato Roe contro Wade, hanno lanciato una capillare controffensiva politica in tutto il paese sul tema della “women’s reproductive health”, come da decenni viene riformulato da sinistra il tema dell’aborto. Paradossalmente, ma non troppo, la sentenza Dobbs ha messo in difficoltà i repubblicani, perché ha mobilitato in modo significativo la base progressista e ha contribuito nel novembre scorso a frenare molto il partito di Donald Trump nelle elezioni di Midterm. I repubblicani, che contavano di controllare il Congresso con ampio margine, hanno conquistato la Camera con una maggioranza esigua e hanno fallito l’assalto al Senato.

 

L’aborto appare ora anche un punto di forza su cui potrà contare Joe Biden nella corsa alla Casa Bianca nel 2024, per la capacità di spingere gli elettori ai seggi, soprattutto le donne e i giovani. I repubblicani, da quando è uscita la sentenza Dobbs – che in teoria è un loro successo, dopo cinquant’anni di battaglia politica – in pratica evitano di parlare di interruzione di gravidanza e hanno spostato il tiro su un altro tema: la lotta alla “gender-affirming care”, l’insieme degli interventi per il cambio di sesso che sono la bandiera del movimento Lgbtq. I giudici supremi, in tutto questo, sono stati lasciati abbastanza soli e sono sotto il fuoco incrociato degli attacchi da parte dei politici e dei media progressisti. Le accuse alla Corte sono molteplici. Da quella di essere troppo “a destra” e lontana dal sentire comune del paese, a quella di avere problemi etici irrisolti. Un affondo, quest’ultimo, che ha visto preso di mira soprattutto il giudice conservatore Clarence Thomas, l’unico afroamericano della Corte, dove è entrato trentadue anni fa su nomina del primo presidente Bush. Thomas è finito nel mirino per alcune spese personali che risultano essere state coperte da un magnate che finanzia il partito repubblicano e per le attività di lobbying della moglie a favore dell’ex presidente Trump. Niente che sia risultato al momento in violazione delle regole della Corte, ma quanto basta per aver scatenato altre accuse contro i giudici. Fino al punto di mettere in discussione la loro stessa legittimità.

 

E qui il discorso diventa delicatissimo, perché l’America, fin da quando ha scritto la Costituzione nel 1787, basa la propria stabilità su un complesso e fin qui efficace sistema di “checks and balances” tra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. In questi anni sono già state messe in discussione prima la legittimità della Casa Bianca, soprattutto con Trump sottoposto due volte alla procedura di impeachment, poi quella del Congresso, assaltato dai rivoltosi. Far tremare anche il terzo potere potrebbe rivelarsi pericoloso per la tenuta della democrazia. “In questo anno mi aspettavo forti reazioni”, è la riflessione di Alito di fronte a questo scenario, “ma non posso dire che mi aspettassi tutte quelle che sono avvenute. La Corte è stata attaccata con modalità che sono senza precedenti. Proprio in questi giorni è uscito un articolo sul New York Times che sottolinea questo punto. Notava come in passato i presidenti e i membri del Congresso avessero l’abitudine di parlare in modo molto rispettoso delle nostre decisioni. Anche quando non erano d’accordo, erano soliti dire: ‘Beh, non concordo con questa sentenza, ma la Corte si è pronunciata su questo caso e noi dobbiamo rispettare la decisione’. Come evidenzia l’articolo, la situazione adesso è molto diversa: ci sono dichiarazioni di membri del Congresso che suggeriscono che siamo una istituzione illegittima”.

 

L’articolo in questione è un atto d’accusa soprattutto per i democratici ed è significativo che sia uscito su un quotidiano che non è certo tenero nei confronti delle scelte più conservatrici della Corte. Segno che si sta oltrepassando un confine pericoloso. Il New York Times ha ricordato come nel recente passato “i democratici fossero abituati a dissentire in modo rispettoso con i giudici”. L’esempio più clamoroso resta quello di Al Gore, candidato alla presidenza nel 2000, che accettò senza ribellioni la sentenza che mandò alla Casa Bianca George W. Bush dopo il caos dei voti in Florida, nonostante non fosse per niente d’accordo sulle conclusioni dei giudici. Adesso invece, accusa il quotidiano facendo nomi e cognomi di deputati e senatori, i democratici si sono messi a definire i giudici “illegittimi e corrotti, di parte ed estremisti”. Uno stato di cose che sta provocando un crollo di fiducia nella Corte suprema: secondo l’ultimo sondaggio Gallup, solo il 25 per cento degli americani si fida dei giudici di Washington, rispetto al 50 per cento di venti anni fa. “Non sono io a dirlo”, spiega Alito “ma lo fa il New York Times, che ci sono esponenti politici di primo piano che dicono: questa Corte è irredimibile; quindi, non ne parleremo più con i consueti toni rispettosi, ma le daremo addosso”.

 

Giugno è il mese delle sentenze importanti per la Corte suprema, che vengono annunciate per consuetudine poco prima della fine del mese che segna la chiusura dell’anno giudiziario. Ne stanno arrivando alcune in questi giorni destinate a creare controversie e dibattito, come quelle sull’“affirmative action” (le politiche a sostegno della lotta alla discriminazione razziale) o sul condono dei debiti universitari agli studenti. Ma nessuna decisione, per molti anni, avrà l’effetto dirompente e storico che ha avuto un anno fa la sentenza Dobbs contro Jackson. Perché ha scardinato d’un colpo qualcosa che sembrava solidissimo. Per anni il pensiero dominante era che Roe fosse una questione settled, decisa per sempre anche grazie alla successiva sentenza Planned Parenthood v Casey del 1992, che era stata una sorta di test sulla tenuta del diritto costituzionale all’aborto. Dobbs ha smontato completamente sia Roe, sia Casey ed è stata in un certo senso un punto di arrivo dell’intero percorso professionale di Alito, l’autore della sentenza. Il giudice italoamericano, figlio di immigrati calabresi e lucani, cattolico, nominato alla Corte suprema da George W. Bush nel 2005, ha costruito il proprio dissenso giuridico contro Roe fin dagli anni in cui era un giovane funzionario del ministero della Giustizia nell’amministrazione Reagan. E ora che ha messo la propria firma sulla sentenza che ha cancellato quella del 1973, ne parla come di un tragico errore che andava sanato.

 

“Roe era in rotta di collisione con la Costituzione fin dal giorno in cui è stata decisa, Casey ha perpetuato i suoi errori”, si legge in un passaggio-chiave delle 108 pagine delle motivazioni scritte da Alito. Che ora al Foglio spiega il perché, tirando in ballo l’appiglio giuridico su cui si basava Roe: il quattordicesimo emendamento alla Costituzione, deciso nel 1868 per estendere agli ex schiavi neri i diritti di tutti gli americani. “Non c’è niente nella Costituzione che parli di un diritto all’aborto”, dice Alito. “La nostra è una vecchia Costituzione. Ciò su cui si erano basati era un provvedimento adottato nel 1868 che diceva che nessuna persona può essere privata della vita, della libertà e della proprietà senza un corretto processo a norma di legge. Hanno detto: Ah, qui c’è la parola liberty! E quella parola include la libertà di poter abortire. Beh, non era così che era stato compreso il significato di quel termine nel 1868. E se i giudici oggi possono dire: ‘Io so cosa significa libertà. Significa ciò che io penso che significhi libertà, ed è ciò che richiede la Costituzione ed è ciò a cui si devono adeguare tutte le legislazioni statali in Congresso’… tutto questo significa reclamare un enorme mole di potere sulla base dell’idea personale di libertà di qualcuno”.

 

La questione della libertà, per i giudici della Corte che hanno deciso Dobbs, è complessa e si presta a pericolose cattive interpretazioni. Spiega Alito: “Libertà è un termine molto vasto. Significa cose diverse per persone diverse. Per i liberali classici o i libertari, vuol dire la libertà di fare praticamente tutto quello che vuoi, a condizione di non creare danno alle altre persone. Per i socialisti è qualcosa di molto diverso, include un certo grado di eguaglianza materiale che dà a una persona, in pratica, l’opportunità di fare le cose che possono fare le persone con più soldi. Quindi da una parte libertà significa ‘lo stato tenga giù le mani’, dall’altra parte significa introdurre dei benefit sociali, come il diritto a un certo salario, a un’educazione gratuita e via dicendo. Stai attribuendo troppo potere al mondo giudiziario, se dici che la Costituzione richiede qualunque cosa un gruppo di giudici pensa che sia necessaria per la libertà”. E qui si arriva al vero Dna di Roe e del pensiero che negli Usa è stato dominante per mezzo secolo sull’aborto. Perché pensare così la libertà, spiega il giudice, “è ciò che ha fatto Roe ed è stato un errore fin dall’inizio. La questione della regolamentazione dell’aborto avrebbe dovuto essere risolta già nel 1973. Il paese ci avrebbe fatto i conti. Le legislature statali all’epoca erano impegnate nella messa a punto di leggi che regolamentassero l’aborto e avrebbero continuato quel percorso, se la Corte suprema non fosse scesa in campo”.

 

Un modello alternativo c’era, secondo Alito, ed era quello europeo. “È questo il modo con cui la questione è stata gestita in altri paesi, è la modalità che è stata seguita quasi dovunque in Europa. I parlamenti hanno varato leggi che regolamentano l’aborto, dicendo che è permesso in certe circostanze ma non in altre”. “Roe ha portato via tutto questo dai legislatori”, conclude Alito, “e lo ha messo nelle mani della Corte. E questo era sbagliato, enormemente sbagliato. Un errore che andava corretto. Ed è quello che abbiamo fatto”.