Un'immagine del naufragio sul Lago Maggiore (Ansa)

Cosa centra una barca che si rovescia in Italia con i misteri del deal iraniano. Parla Ronen Bergman

Fabiana Magrì

L’incidente sul Lago maggiore dov’è morto un agente del Mossad: “La cooperazione con Roma è considerata una delle più importanti in Europa”, dice il giornalista israelinao, analista esperto di intelligence, terrorismo, nucleare e sicurezza nazionale

Quando Ronen Bergman fa una pausa, è bene restare in attesa ancora un po’. Perché non è affatto detto che abbia terminato il discorso, che non voglia aggiungere ancora un dettaglio o proseguire il ragionamento. Mentre parla, soppesa ogni parola. E non sarà certo lui a riportare la conversazione su un binario abbandonato. 

  
Nella “Nota sulle fonti” che precede il Prologo del suo saggio più recente, “Uccidi per primo. La storia segreta degli omicidi mirati di Israele”, Bergman scrive che “questo libro è lontanissimo dall’essere una storia autorizzata dell’intelligence israeliana”, e spiega che le sue fonti – da leader politici e capi di agenzie fino a operativi in persona – gli hanno fornito documenti, che vengono citati nelle sue pagine per la prima volta, senza mai aver ottenuto il permesso di prelevarli dall’ufficio e tanto meno di consegnarli a lui. Perché? è la domanda, legittima, che si pone. Ciascuno aveva le proprie motivazioni e, ne è ben consapevole, alcuni avranno anche perseguito lo scopo di manipolare la storia usando lui come canale per fornire la versione degli eventi che preferivano. Ma dopo che il Mossad è riuscito a bloccare l’accesso ad alcune sue fonti, e dopo che “molti altri” interlocutori sono morti dopo averlo incontrato, “quasi tutti per cause naturali”, le testimonianze che Bergman ha raccolto sono le uniche a esistere “al di fuori dei caveau della Difesa”. Alcune, addirittura, “sono le uniche esistenti in assoluto”. 

   
Ecco perché quando si verifica qualcosa di così anomalo, come una tempesta che si abbatte sul Lago Maggiore con una violenza tale da far ribaltare un’imbarcazione con a bordo 23 passeggeri, di cui 13 spie o ex operativi del servizio di intelligence israeliano e 8 dei servizi italiani, e in cui 4 di loro, tra cui l’agente “M” del Mossad, muoiono, quello che Bergman sa, apprende, scrive e commenta è da considerare e seguire con attenzione. 

  
Da Tel Aviv per il New York Times, Bergman ha esplorato la vicenda e ne ha analizzato le ricostruzioni pubblicate sulla stampa italiana. “Non credo ci sia nulla di accuratamente verificato tra quanto è stato scritto sul fatto della barca”, dice Bergman al Foglio, “se non che si è trattato di una tragedia. Non dico che non siano cose vere ma non ho elementi per ritenerle tali”. Ogni parola è pronunciata come un invito a valutarla nel suo senso meno superficiale. E con ogni pausa, lo sottolinea. “Penso che l’evento sulla barca”, continua, “non fosse un’operazione in sé ma che ne facesse parte. E’ evidente che quelle persone, quegli agenti del Mossad, non erano arrivati in Italia solo per fare una crociera di un giorno sul Lago Maggiore. Erano lì perché parte di un’operazione in corso tra i servizi di intelligence italiani e israeliani. Mentre non ho alcuna indicazione sulla veridicità delle teorie complottiste su ciò che è accaduto al lago prima dell’incidente o sull’incidente stesso, sono sicuro che il fatto che quelle persone fossero lì, a godersi il loro tempo libero, fosse collegato alla ragione che le ha portate a essere tutte insieme in Italia”. Insomma, Bergman non crede che la scena dell’azione fosse necessariamente il Lago Maggiore. “Direi che è più probabile il contrario. Cioè che stessero facendo qualcosa da qualche altra parte o riguardo a qualcos’altro. E che abbiano trascorso un paio di giorni a fare qualcosa che non so, ma che non era relativo all’operazione, quando la giornata che hanno trascorso in crociera è finita in tragedia”.

    
In un articolo firmato a quattro mani con la corrispondente del New York Times in Italia, Elisabetta Povoledo, Bergman, che è esperto di intelligence, di sicurezza nazionale, di terrorismo e di nucleare, ha citato un ex funzionario della Difesa israeliana. Questa fonte gli ha detto che il Mossad e l’intelligence italiana cooperano su questioni di interesse comune, come la guerra al terrorismo o la raccolta di informazioni sul progetto nucleare iraniano. 

 
“Tutti i paesi dell’Europa occidentale condividono l’interesse di assicurarsi che l’Iran non diventi nucleare. E l’Italia sta collaborando con il Mossad su interessi comuni al punto che, mi è stato detto da alcuni funzionari della Difesa israeliana, la cooperazione con l’Italia è considerata una delle più importanti in Europa. Ci sono stati casi in cui le due agenzie hanno collaborato”, ricorda l’autore, e ne scrive in maniera estesa in “Uccidi per primo”, “e altri in cui non voglio dire che fossero una contro l’altra, ma non hanno lavorato insieme.” “Potrei anche menzionare che le aziende italiane aiutarono il progetto nucleare iracheno, cioè aiutarono i francesi ad aiutare gli iracheni negli anni Settanta e Ottanta, e che Israele collaborò con i servizi italiani per ottenere maggiori informazioni sul programma nucleare. Non posso entrare nei dettagli. Ma questo potrebbe essere un modello di ciò che sta succedendo in Iran”. Più ci avviciniamo al presente, meno è lecito aspettarsi di sapere.

 
Ma, mentre gli americani stanno riprendendo gli sforzi per tornare ai negoziati con l’Iran sul nucleare, Israele è tornato a calcare la mano sulle conseguenze. L’Amministrazione Biden è impegnata in una negoziazione “less for less”, con pretese americane meno rigorose nell’arena nucleare, accettando di fatto i progressi dell’Iran ma offrendo, in cambio di un congelamento temporaneo della situazione, una parziale rimozione delle sanzioni economiche. Israele si oppone e avverte che un accordo provvisorio così limitato non costituisce alcuna garanzia alla supervisione internazionale. Secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), all’Iran basterebbero 12 giorni per ottenere l’arricchimento al 90 per cento necessario per produrre una Bomba nucleare, e altre quattro Bombe nel giro di un mese. L’intelligence israeliana citata dai media stima che, anche dopo un tale passo, all’Iran servirebbero probabilmente altri due anni per adattare la testata nucleare e montarla su un missile balistico. 

 
Il primo giugno, il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, è tornato ad affrontare la questione nucleare iraniana, affermando che i pericoli che Israele deve affrontare si stanno intensificando e potrebbe essere richiesto di adempiere al dovere di proteggere l’integrità dello Stato e soprattutto il futuro del popolo ebraico. Ha anche sottolineato che il governo, l’esercito e tutte le agenzie di sicurezza sanno cosa fare per difendere Israele nel presente e nel futuro. Contemporaneamente, il ministero degli Esteri israeliano, Eli Cohen, ha criticato la decisione dell’Aiea di chiudere le indagini sui resti di uranio arricchito nel sito di Marivan, uno dei tre che l’Iran non aveva rivelato e che il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva reso pubblico in un discorso alle Nazioni Unite. 

 
Nella nota trasmessa dal portavoce Lior Haiat si mette in guardia dalle conseguenze estremamente pericolose e dal messaggio che questa decisione trasmette agli iraniani, cioè che non sono tenuti a pagare un prezzo per le loro violazioni e che possono continuare a ingannare la comunità internazionale. Anche il premier Netanyahu ha ribadito che Israele farà tutto ciò di cui c’è bisogno per impedire all’Iran di ottenere armi nucleari. “Al di là dei casi specifici, e della necessità di Netanyahu di rilasciare una dichiarazione ribadendo lo stesso messaggio di Gallant con parole forti, con parole grosse, resta la domanda: come? Queste parole sono importanti, sono molto chiare e nette. Ma come potrà Israele impedire all’Iran di diventare nucleare, io non l’ho ancora capito”. 

 
Sostengono un po’ tutti gli analisti che quello che sembra un progresso nel canale americano-iraniano non sia disconnesso dalle speranze di una svolta nel canale israelo-saudita. Washington starebbe cercando di far digerire a Israele un ritorno al deal sul nucleare con l’Iran, convincendo l’Arabia Saudita a entrare formalmente negli Accordi di Abramo. Ma l’eventuale “dono” per Israele, a cui Netanyahu tiene più di ogni altra cosa, non è senza un prezzo. L’Arabia Saudita sta cercando garanzie di sicurezza dagli Stati Uniti, aiuto per lo sviluppo di un programma nucleare civile e meno restrizioni sulla vendita di armi statunitensi come prezzo per normalizzare le relazioni con Israele. Ma la proliferazione nucleare nella regione rischia di trasformarsi in un incubo strategico per Israele. “Questo è un accordo molto difficile sia per Israele sia per gli Stati Uniti. Ma si tratta del futuro. E io”, dice Bergman, “non so nulla del futuro”.