Davvero Giorgia Meloni sta orbanizzando l'Italia?

Gli ungheresi spiegano Orbán al Pd, con differenze e rischi

Micol Flammini

Il legame tra la presidente del Consiglio e Orbán esiste ed è antico, ma oggi c'è anche una differenza, ed è insormontabile

Si fa presto a dire “diventeremo come l’Ungheria”, è una semplificazione a cui spesso viene accostata  la politica italiana (lo ha detto ieri su Repubblica il responsabile esteri del Pd Giuseppe Provenzano). Si fa altrettanto presto a recuperare le parole della presidente del Consiglio Giorgia Meloni a sostegno di un indifendibile Viktor Orbán. Un esempio, nel settembre scorso, il Parlamento europeo aveva adottato a larga maggioranza un rapporto in cui veniva sottolineato che il governo ungherese sta  ormai diventando un regime ibrido di autocrazia elettorale, Giorgia Meloni si schierò a favore di Orbán, sostenendo che l’Ungheria è una democrazia, il premier ha vinto le elezioni, lo fa da diversi anni. Tutto vero: Orbán ha vinto, lo fa da anni e ogni anno scartavetra un po’ di stato di diritto, di pluralismo, di democrazia. A ogni tornata elettorale, vincere è sempre più semplice. Il premier ungherese è stato per anni un modello con le sue battaglie da conservatore, Meloni e Orbán sono sempre andati d’accordo, poi è arrivata la guerra in Ucraina e le similitudini sono andate scemando, è emersa invece una grande e per ora insormontabile differenza. 

 

Flora Garamvolgyi, che scrive sul Guardian, sull’Observer e per Radio free Europe, è una giornalista che segue con attenzione i legami tra l’estrema destra americana e l’Europa. Anche di questi legami per anni si è nutrita l’amicizia politica di Meloni e Orbán, un simbolo per parte dei repubblicani. Garamvolgyi vive tra gli Stati Uniti e l’Ungheria e ha osservato l’erosione della democrazia ungherese: “E’ stato un processo lento, ma efficace”, ha detto al Foglio.  “Penso che l’acquisto di società di media da parte di oligarchi favorevoli al governo abbia avuto un ruolo enorme”, oggi Orbán ha quasi il pieno controllo delle testate nazionali, che hanno anche il compito di screditare i restanti organi di stampa. Con il pluralismo evanescente, la vittoria del premier alle elezioni avviene in un contesto impari. “I cittadini non sanno a chi rivolgersi quando vogliono prendere delle decisioni informate. Ho trascorso l’ultimo mese e mezzo in Ungheria e ho notato molta sfiducia”. Anche le organizzazioni per i diritti umani sono spesso attaccate sulla stampa governativa,  e “un altro modo con  cui il governo di Orbán continua a minare il processo democratico è  distribuendo  un gran numero di risorse statali ai suoi alleati”. In Ungheria l’opposizione esiste, ma ha una voce flebile, le campagne elettorali sono uno show di Orbán,  e c’è il tentativo di demonizzare tutto ciò che esula dal conservatorismo del premier approvato da diverse destre europee, inclusa quella meloniana. 

 

Se è innegabile una base di approvazione per le idee di Orbán   da parte della presidente del Consiglio italiana – secondo l’opposizione ungherese le differenze tra il premier e Meloni sono quisquilie, semmai sono i sistemi istituzionali a essere molto diversi – le loro parabole politiche  sono molto diverse. Orbán inizia la sua carriera  come un dissidente, un giovane innamorato dei valori europei,  e appassionato di una rivoluzione che non aveva mai conosciuto, quella del ‘56 finita sotto i cingolati sovietici. Poi una volta al potere diventa un barometro in grado di misurare le rabbie ungheresi e di fomentarle e di tradire ogni suo principio pur di assecondarle. Viene il dubbio se sia mai stato davvero europeista, lui che  ha definito l’Ue  una nuova Urss e usa i fondi di Bruxelles come un bancomat per aumentare il consenso e stuzzica l’antipatia contro le istituzioni comunitarie. Giorgia Meloni non ha mai detto di amare l’Europa, ma contrariamente a Orbán sta imparando a dialogare con le istituzioni di Bruxelles, ha capito quanto  la collaborazione con l’Ue possa dare una mano nella politica interna. Il rischio che come Orbán sia un barometro del malcontento italiano esiste, che possa contare su dei cittadini apatici che sentono poco il richiamo della piazza anche esiste,  come pure la simpatia di Meloni per Orbán è cosa acclarata. Anche le opposizioni sono simili nella mancanza di efficacia: quella ungherese è mediaticamente silenziata, quella italiana confusa. Ma bisogna tornare alla differenza, quella insormontabile: Meloni, che non è entusiasticamente europeista, è  convintamente atlantista, abituata a pensarsi in una coalizione in cui ci sono regole e paletti condivisi. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.