nati il 4 giugno

La manifestazione oceanica di Varsavia contro l'apatia

Messaggi dalla protesta in Polonia contro la commissione sulle influenze russe e il sapore di una battaglia che è solo all'inizio

Micol Flammini

Sono anni che i polacchi dimostrano come si combatte un governo pronto a scardinare lo stato di diritto e la democrazia. I messaggi dai cartelloni, le differenze con l’Ungheria e la sentenza della Corte di giustizia dell’Ue

“Saremo più di duecentomila”. Primo messaggio da Varsavia. “No, no, stanno arrivando tanti da fuori, vedrai che a trecentomila ci arriviamo”. Secondo messaggio da Varsavia. “Incredibile, siamo mezzo milione di polacchi”. Terzo messaggio, colmo di entusiasmo. La manifestazione di domenica contro la creazione di una commissione per indagare le influenze russe nella politica polacca ha avuto una partecipazione che in Polonia hanno definito “oceanica”. La legge non piace non perché i polacchi non siano preoccupati della possibilità che Mosca abbia cercato, in passato e cerchi ancora, di interferire nella vita politica o economica di Varsavia, ma perché non credono che la commissione sarà trasparente e agirà con indipendenza rispetto a quello che vuole il PiS, il partito che governa la nazione dal 2015, e che si può sintetizzare in una frase: vincere senza troppi intoppi.  Gli intoppi hanno dei nomi, cognomi e temi:  sono le proteste degli agricoltori e dei trasportatori,  sono i soldi del Pnrr che rimangono a Bruxelles a causa del poco impegno del governo a fare le riforme necessarie, ci sono i prezzi dell’energia che crescono. Poi c’è l’Intoppo, il re degli intoppi, il volto che per il PiS rappresenta tutto quello che può andare storto: Donald Tusk. E’ stato lui, leader di  Piattaforma civica (Po), a proporre ai polacchi di scendere in piazza,  e gli altri partiti di opposizione – intoppi minori per il PiS – inizialmente timidi e poco entusiasti di aderire alla protesta organizzata da  altri  hanno poi capito quanto invece fosse importante manifestare, contarsi, prendere parte anche alla corsa tutta polacca,  che contraddistingue ogni protesta,   a  chi fa il manifesto più bello – in Polonia c’è una tradizione longeva, un’arte autoctona  molto cinematografica del disegnare  poster ma che si applica anche alle proteste: per chi è curioso basta andare a Cracovia a visitare la Galeria Plakatu. 

 

La protesta è stata maestosa, colorata, vivace, ed è stata il segno più forte che la Polonia potesse dare all’Europa: noi alla democrazia ci teniamo, non lasciamo che il governo la strattoni per rimanere al potere. Donald Tusk, ex premier ed ex presidente del Consiglio europeo, è tornato in Polonia proprio per riprendere parte alla politica nazionale, dopo anni trascorsi tra Bruxelles e Strasburgo, e con l’obiettivo di risvegliare l’opposizione. Sa unire, sa movimentare, sa come smascherare l’imbroglio del PiS. Sa anche di essere odiato proprio perché è in grado di fare tutto questo. Il partito di governo  ha spesso fatto di Tusk il bersaglio delle campagne nazionaliste, rimproverandogli prima una   politica troppo appiattita sui diktat di Bruxelles, poi su quelli di Berlino e poi anche accusandolo di   un avvicinamento alla Russia, nel momento in cui tutta l’Europa, nessuno escluso, voleva credere in un Cremlino dialogante. Anche la Polonia, seguendo lo spirito europeo, ha mandato giù tante paure e preconcetti e,  per un periodo,  ha cercato di dare una possibilità a Mosca. Nulla di losco, nulla di ameno. Tutto molto europeo. 

 

In Polonia si voterà a ottobre e il PiS vuole fare di quell’epoca di relazioni morbide con la Russia uno dei punti centrali della campagna elettorale e il problema è che potrebbe utilizzare la Commissione come un’arma. La  nuova legge è stata firmata dal presidente – sempre del PiS – Andrzej Duda, e impedirebbe ai politici sotto osservazione di continuare a fare politica: una  capriola perfetta  per estromettere Tusk dal voto.  Anche la Commissione europea e gli Stati Uniti hanno rilevato che ci sono diversi punti preoccupanti per come la legge potrebbe venire applicata e Duda, che secondo pettegolezzi dentro al Sejm, il Parlamento polacco, ha aspirazioni internazionali, ha proposto alcuni emendamenti. I polacchi sono scesi in piazza ugualmente, numerosissimi, infiniti, e con un modello in testa. Pochi mesi fa sono stati gli israeliani a dimostrare come in una democrazia le proteste possono portare a un cambiamento. Sono scesi in strada ordinati, colorati, metodici fino a costringere il premier, Benjamin Netanyahu, a ritirare la sua riforma della Giustizia e a sedersi al tavolo con le opposizioni per farne una migliore, rispettosa della tradizione democratica del paese e che non servisse a eternare il potere di un solo uomo o di un solo partito. Questo vogliono i polacchi e sono pronti a scendere in strada finché sarà necessario. 

 

Un cartello, tra i più simpatici, diceva: “Jarek (diminutivo di Jaroslaw, nome del leader del PiS Kaczynski) neppure Freud ti capirebbe”. La maggioranza forse non si sarebbe immaginata una protesta tanto partecipata, ma ha dimostrato di non conoscere bene i polacchi. L’immagine di Varsavia che traboccava di cittadini, di bandiere europee e nazionali, è stata un messaggio in grado di stordire il governo che ha cercato di disincentivare la partecipazione in ogni modo. E ha fatto peggio. Prima paragonando i partecipanti ai nazisti con uno spot terribile che aveva come oggetto principale le rotaie che portavano gli ebrei nel campo di Birkenau. Poi, capendo che l’errore era stato plateale e difficile da far dimenticare, hanno iniziato a sminuire la manifestazione, suggerendo che nessuno sarebbe andato. Il premier, Mateusz Morawiecki, ha detto di non avere “chiaramente” nulla in contrario rispetto alla libera manifestazione delle opinioni, “è la bellezza della democrazia … mi viene però da ridere quando delle vecchie volpi sedute in politica da anni organizzano una marcia antigovernativa e la presentano come una protesta civile spontanea”. 

 

Messaggio dalle strade di Varsavia: “Se guardi TvP dicono che non c’è nessuno, non sanno come posizionare le telecamere per far finta che le strade siano vuote. Piazza del Castello scoppia!”. TvP è la televisione di stato, colonizzata dal PiS e domenica ha avuto il compito arduo di far finta che i polacchi non stessero manifestando, che Tusk – “la vecchia volpe”, come dice Morawiecki – fosse solo a specchiarsi sul palco. Invece no. 

 

Si tende spesso a raccontare Polonia e Ungheria in parallelo, come due universi gemelli, ringhiosi nei confronti dell’Ue, pronti a picconare la democrazia dall’oggi al domani. Invece non ci sono paesi più distanti e quando spesso si domanda ai polacchi se non hanno paura di diventare come l’Ungheria, rispondono convinti: “No”. Sono consapevoli che quel che fa la differenza è la società civile, è un popolo che sente una responsabilità storica nei confronti della propria democrazia – anche la reazione alla guerra russa contro l’Ucraina è stata molto diversa tra Budapest e Varsavia – che reagisce guardingo a ogni tentativo del PiS di smantellare lo stato di diritto, che vive il far parte dell’Unione europea non come l’adesione a una linea di credito molto vantaggiosa, ma come una responsabilità. Uno dei cartelloni in piazza diceva: “Basta con l’apatia”. Non che il PiS non sia pronto a smontare lo stato di diritto in Polonia – ieri la Corte di giustizia dell’Ue ha detto che la riforma della giustizia che vuole il governo vìola il diritto europeo – ma ha di fronte dei cittadini che hanno capito che è l’apatia a far vincere gli autocrati  e scendono in piazza, sempre, costanti, vivaci, arrabbiati. Sentono una responsabilità. 

 

La manifestazione si è tenuta il 4 giugno e la data non è stata scelta a caso: nel 1989, il 4 giugno si tennero le prime elezioni libere in Polonia. Domenica la Polonia ha manifestato contro l’istituzione di una Commissione che ricorda i metodi putiniani per eliminare l’opposizione. I cartelli che  ricordavano la ricorrenza storica sembravano senza fine. Le telecamere di TvP,  per non riprenderli, non hanno avuto alternative: linea allo studio.  
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.