L'esordio di Re Carlo tra Boris e i sandaloni

L'incoronazione come un film

Michele Masneri

Come i registi esordienti al primo film, e pure figli d’arte di famiglie complicate, Carlo nella sua opera prima che prepara da 70 anni ci ha voluto pure mettere tutto, evitando di scegliere un “taglio” preciso

Londra. Se fosse un film l’incoronazione di Re Carlo sarebbe un peplum, o meglio ancora un “sandalone”, quelle pellicole che a Cinecittà si realizzavano riutilizzando vecchi pezzi di scenografie, le armature di plastica di Ben Hur, le spade finte di Cleopatra, e Martignano per il lago di Tiberiade e gli orologi ai polsi dei senatori romani, con attori un po' de quarta. L’incoronazione di Carlo del resto nasce  come un film difficilissimo, come il sequel di un enorme successo di pubblico e di critica di epoche d'oro passate, come se si volesse rifare oggi il Gattopardo con Kim Rossi Stuart (ah, no, l’hanno fatto). Come competere del resto con la madre, per 70 anni star del muto e poi del bianco e nero e poi anche del colore e del sonoro, come riuscì solo a pochissime dive?

 

Come i registi esordienti al primo film, e pure figli d’arte di famiglie complicate, dunque con enorme pressione e complessi, Carlo nella sua opera prima che prepara da 70 anni ci ha voluto pure mettere tutto, evitando di scegliere un “taglio” preciso. Anche, si vede la presenza di troppi sceneggiatori. Dunque non dramma, come genere (come i funerali di casa) né musical americano (matrimoni recenti). Un mistone di temi e immagini e costumi: dentro l’interreligiosità coi popi e i cardinali, che facevano subito “Grande bellezza” (mancava solo Repetti di Einaudi vestito da rabbino, e la Santa, peraltro identica alla defunta mamma di Filippo, la principessa-suora). C’era pure il momento-gospel, rubato alle nozze di Meghan e Harry, ma che qui stonava come un tocco di giovanilismo in quella che è stata in fondo una festa per anziani (settantacinque anni lei, settantaquattro lui. Diverse carrozzelle tra le prime file).

 

E poi c’è stato il “lodimo”, come nei migliori Boris, quando non si ha budget per girare delle parti e le si evoca. Scene e personaggi che c’erano, ma non si vedevano. Intanto il momento dell’unzione, momento sacrissimo che non fu ripreso - daje de campo lungo - neanche nell’incoronazione di Elisabetta nel 1953. Ma qui Carlo ci ha voluto mettere del suo, perché si rivolge a un pubblico “artsy”. Dunque a coprirci la vista dei paraventoni di tessuto con alberature varie, chissà a quali simbolismi di riferiscono, ma sembravano dei tovagliati di Lisa Corti. 

 

E Harry: c’era, c’era sicuramente, qualcuno giura perfino di averlo visto, ma non certo gli spettatori. La perfida regia l’ha tagliato fuori, le rare foto lo mostrano in terza fila, impallato dalle piume dei cappelli (il “placement” degli indesiderati è una grande tradizione a Westminster, come quando alle nozze di Carlo la nonna adottiva di Diana, la scrittrice rosa Barbara Cartland, peraltro piuttosto appariscente, fu collocata dietro una imponente colonna). Infine sbagliate le luci, troppe le comparse, e cambiare il fornitore degli animali di scena: i cavalli nelle processioni sembravano dei ronzini, comunque indisciplinati rispetto ai destrieri compostissimi del funerale-kolossal di mammà.

 

Unica nota positiva, se fossimo in qualche “piattaforma”: bene la diversity, con tanti asiatici e soprattutto neri, oltre al Commonwealth praticamente tutto il governo (magari presidente e presidentessa del Ruanda, a ricordare dove vengono spediti gli immigrati indesiderati inglesi, si potevano evitare, oppure è il primo pizzino di Re Carlo al suo governo, peraltro già bocciato nelle urne in queste ore).  Minutaggio infine troppo lungo, bisognava tagliare al montaggio. Il pòro Mattarella è stato visto entrare nell’abbazia di Westminster alle nove e mezza di mattina, ne è stato rilasciato alle due di pomeriggio. Poi dice che la gente non va più in sala.

 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).