L'America percepita

A “provocare Putin” è la debolezza occidentale, non la sua forza. Dal Biden di Kabul a Biden a Kyiv

Cecilia Sala

La potenza della visita di Biden a Kyiv non ha provocato Putin, gli analisti si interrogano se non sia avvenuto l’esatto contrario: se non sia stata una prova di debolezza occidentale a eccitare i sogni espansionistici e violenti del presidente russo

Non sono le dimostrazioni di forza dell’occidente a “provocare” Vladimir Putin, è il contrario: lo ridimensionano. Molti osservatori temevano che, dopo la visita a sorpresa di Joe Biden a Kyiv lunedì scorso, Putin si sarebbe tremendamente arrabbiato e il suo discorso alle Camere il giorno dopo sarebbe stato più infuocato e minaccioso che mai. Invece l’ultimo discorso è stato – per quanto possibile – il più contenuto di tutti, certamente più del penultimo, il 21 settembre, quello dell’escalation, in cui il presidente russo ha deciso la mobilitazione parziale, cioè di portare al fronte con la forza centinaia di migliaia di maschi maggiorenni russi. Quello in cui ha annesso alla Russia quattro province ucraine che il suo esercito neppure controlla e in cui ha evocato, senza mai nominarle, le armi atomiche. 

 

Ma il confronto più rilevante è tra il discorso di Putin del 21 febbraio 2022 e quello di esattamente un anno dopo, due giorni fa. Il Putin del 21 febbraio 2022 è sprezzante e audace, parla dell’Ucraina come di una nazione povera, insignificante, “un paese fallito” che tocca a lui rimettere a posto. Il Putin di due giorni fa – come ha notato il professor Tymofiy Mylovanov, il preside della facoltà di Economia a Kyiv che insegna anche a Pittsburgh – non parla più di un’operazione “speciale” fuori dai confini in cui la Russia, da una posizione di forza, si prende cura di chi ha bisogno (la popolazione del Donbas), ma di una Russia in pericolo, minacciata da forze potentissime. E’ una bugia insensata perché l’occidente non ha invaso né la Russia né l’Ucraina, la Russia ha invaso l’Ucraina, ma è indicativa. Il tono è stato monocorde, spento, e la guerra ha preso meno tempo e parole delle questioni di economia interna, dai progetti per le imprese di costruzioni alla necessità di portare dei presidi sanitari nei paesini sperduti ai sussidi da dispensare. Il Putin di un anno fa è arrogante, quello di due giorni fa è più modesto e sulla difensiva. “Anche parlare così tanto delle famiglie dei caduti che hanno bisogno di sostegno – in un contesto come quello russo – è un segnale di debolezza”, dice Mylovanov.

 

La potenza della visita di Biden a Kyiv non ha provocato Putin, ma gli analisti da un anno si interrogano se non sia avvenuto l’esatto contrario: se non sia stata una prova di debolezza occidentale a eccitare i sogni espansionistici e violenti del presidente russo. Il riferimento è al ruolo del ritiro rovinoso da Kabul e del fallimento afghano nel preludio alla guerra in Ucraina, e la domanda è in quale misura possa aver fatto scattare nella mente di Putin l’idea che fosse arrivato il momento propizio per realizzare un piano perverso che aveva nel cassetto da anni, e per cui aveva già messo in scena alcune prove generali in passato. Perché in quel momento, secondo Putin, Kyiv era “uno stato fallito” e quelli che avrebbero potuto aiutarla – i paesi occidentali – erano sconfitti, in ritirata, e non avevano più la forza e la voglia di prendersi impegni faticosi al di fuori dei propri confini.  A novembre, solo due mesi e pochi giorni dopo il completamento del ritiro dall’Afghanistan, quasi duecentomila truppe russe posizionate ai confini dell’Ucraina erano dieventate nitidamente visibili agli occhi dei satelliti. 

 

Jack Watling, del think tank militare britannico Rusi, ha applicato la teoria secondo cui è la debolezza delle democrazie a esaltare Putin mentre la forza dell’occidente è capace di frenarlo alla questione diplomatica. Il ragionamento di Watling parte dal presupposto che, qualsiasi esitazione, qualsiasi passo indietro rispetto al sostegno di americani ed europei a Kyiv, allontana Putin dall’ipotesi di un negoziato perché intravede la possibilità che presto l’Ucraina sia di nuovo sola e indebolita e quindi prendibile con la forza, con il proseguimento della guerra, senza rinunce. “L’ironia  – dice Walting –  è che per avere una guerra breve bisogna mostrarsi pronti e determinati per la guerra lunghissima”. Walting dice anche un’altra cosa: invece che discutere pubblicamente e all’infinito su ciò a cui l’Ucraina sarebbe o non sarebbe disposta a rinunciare, l’attenzione dovremmo metterla su cioè che non è negoziabile per noi: perché Putin ha interesse a un negoziato solo se crede che il sostegno occidentale sia illimitato, se è a breve scadenza gli conviene la guerra.

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