Un vertice del 2020 fra Assad e Putin a Damasco (foto LaPresse)

normalizzare il regime

Il fronte largo di chi vuol fare la pace con Assad va da Erdogan all'Europa

Luca Gambardella

Il presidente turco è pronto a incontrare il dittatore siriano con la benedizione di Putin. Per Biden è ora di fare delle scelte

Più si avvicinano le elezioni in Turchia, più fa passi avanti il processo di normalizzazione delle relazioni fra il presidente Recep Tayyip Erdogan e il regime siriano di Bashar al Assad. Lo scenario che si va delineando rischia di diventare ostile soprattutto per gli Stati Uniti, che in Siria hanno dislocato circa un migliaio di uomini. Nel giro di pochi giorni, forse entro una settimana secondo indiscrezioni che filtrano da Ankara, i ministri degli Esteri di Siria, Turchia e Russia si incontreranno ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. E’ proprio il paese del Golfo, con la supervisione di Vladimir Putin, a fare da mediatore fra Erdogan e Assad, nemici giurati da prima ancora che iniziasse la guerra in Siria. In cambio della ripresa delle relazioni politiche e commerciali fra i due paesi, Assad assicura a Erdogan che si opporrà a qualsiasi richiesta di autonomia dell’Ypg, la milizia curda che nel nord del paese è alleata degli Stati Uniti contro il Califfato. E’ una promessa che il presidente turco vuole spendere nella sua campagna elettorale. Da mesi, Erdogan minaccia un’offensiva nel nord della Siria contro i terroristi curdi, ma sia la Russia sia gli Stati Uniti hanno fatto capire che la soluzione militare non è percorribile. L’alternativa è quella di seguire una strada diplomatica, che è già aperta da tempo. A partire dall’estate scorsa, con la regia del Cremlino che punta a stabilizzare la Siria sotto la sua supervisione, in diverse occasioni il capo dell’intelligence turca, Hakan Fidan, ha fatto visita a Damasco al collega siriano Ali Mamlouk. L’ultimo approccio fra le due delegazioni è di poche settimane fa, il 28 dicembre, con un vertice a Mosca che ha coinvolto anche i ministri della Difesa. Infine, la settimana scorsa, è stato Erdogan a dirsi ottimista su un incontro con Assad: “Ci incontreremo secondo gli sviluppi che ci saranno”, ha detto al termine di un bilaterale con Putin. 

  

Al centro della discussione c’è il ritorno in Siria dei profughi che in oltre 10 anni di guerra si sono riversati in Turchia e che, secondo le stime dell’Onu, sono quasi 4 milioni. Per Erdogan, il loro rimpatrio è la condizione essenziale per una normalizzazione delle relazioni con Assad. In questo modo, senza avventurarsi in una nuova campagna militare, il presidente turco riuscirebbe a realizzare il suo piano: creare una zona cuscinetto al confine con la Siria dove insediare un numero cospicuo di arabi siriani in grado di fare da argine fra i curdi del sud della Turchia e quelli del nord della Siria. 

 

Se Erdogan cerca di ridisegnare la mappa etnica del paese, il piano di Putin è invece quello di assestare un colpo deciso agli americani, guidando la Siria verso una stabilizzazione fatta alle sue condizioni. Finora, Joe Biden ha puntato sul mantenimento dello status quo nei confronti del regime e sulla guerra allo Stato islamico. Si è trattato di una missione indispensabile: secondo il Pentagono, nel 2022 gli americani hanno ucciso 700 miliziani di Daesh e ne hanno catturati altri 400. Se non ci fossero stati loro, oggi il Califfato sarebbe più forte e strutturato. Ma sebbene indebolito, lo Stato islamico in Siria non è morto. Lo dimostrano l’aumento degli attentati compiuti in questi mesi nelle zone controllate dal regime e le migliaia di bambini costretti con le loro madri nei campi di detenzione nel nord del paese, considerati la nuova generazione del jihad. Una normalizzazione delle relazioni fra la Turchia e Assad costringerebbe Biden a prendere una posizione più netta su cosa fare, sia con il suo alleato turco nella Nato sia con il regime siriano. 

  

Un punto su cui dovrà interrogarsi anche l’Europa, dove silenziosamente diversi paesi considerano Assad un fattore di stabilizzazione del medio oriente. E’ un’idea che si sta facendo largo da Visegrád a Copenaghen, passando per Vienna e chissà se anche per Roma, dove la premier Giorgia Meloni in passato non ha nascosto il suo apprezzamento nei confronti del regime siriano. E’ successo molte volte, persino quando Assad si rese responsabile nel 2018 di attacchi chimici contro i civili. “Ancora una volta nessuna prova concreta”, aveva dichiarato Meloni all’epoca. Poi le prove sono arrivate e Assad è stato accusato dall’Onu di avere ucciso decine di persone a Douma, tra cui molti bambini. Il mese scorso, Foreign Policy ha riportato la notizia di incontri informali tenuti fra gli sherpa di alcuni paesi europei, Italia inclusa, per studiare un riposizionamento politico nei confronti di Assad, riconsiderando le sanzioni imposte al regime e puntando a diminuire il flusso di profughi verso l’Europa. “La posizione dell’Ue è quella di ferma condanna nei confronti del regime”, ha detto al Foglio un diplomatico italiano a Bruxelles, che non ha confermato le indiscrezioni su questi incontri. Ma dietro alle dichiarazioni ufficiali, in molti fra i sovranisti pensano che avere a Damasco un Assad legittimato sia il male minore. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.