E in Italia con i porti ai cinesi come va?

Giulia Pompili

Nonostante i populisti, ora le nostre infrastrutture sono in sicurezza (grazie Draghi)

Roma. “Abbiamo fatto degli errori strategici, in passato, sulla vendita di nostre infrastrutture alla Cina”, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron dopo il Consiglio europeo della scorsa settimana. Ma già due anni fa, la neo  presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, diceva più o meno le stesse cose, e scriveva su Facebook come fosse “ignobile” che mentre noi affrontavamo la pandemia, primi in Europa, “ci sia chi lavori per regalare alla Cina il controllo delle nostre infrastrutture strategiche come i porti di Taranto e Brindisi”. Ma un conto è parlare dallo scranno dell’opposizione, un conto è applicare una politica concreta di controllo degli investimenti cinesi e delle influenze ottenute dalla Cina, negli anni, dentro al nostro paese. 

 


L’Italia è stato l’unico paese del G7 a entrare nel grande progetto strategico della Via della Seta, e all’epoca, nel marzo del 2019, al governo c’era un partito che adesso è di nuovo in coalizione con Meloni. Ai tempi dell’arrivo di Xi Jinping a Roma Matteo Salvini ricopriva il ruolo di ministro dell’Interno, oggi, da ministro delle Infrastrutture, a meno che non ci siano sorprese sullo spostamento delle deleghe, ha un altro dossier particolarmente spinoso sulla scrivania: quello sui porti e il controllo delle Autorità portuali. Al di là della Via della Seta, e nella relativa indifferenza generale (anche delle opposizioni) nel nostro paese operano già da anni tre colossi della navigazione cinese: il colosso Cosco, che ha il controllo del porto greco del Pireo e vorrebbe entrare in quello di Amburgo, l’impresa di stato cinese China Communications Construction Company (Cccc) e il China Merchant Group. Molti degli accordi con le autorità portuali italiane riguardano investimenti di riqualificazione e l’intensificazione del traffico di merci, e valutati singolarmente, caso per caso, da Venezia a Taranto, da Napoli a Gioia Tauro fino a Ravenna, queste intese a oggi non destano una reale preoccupazione dal punto di vista della sicurezza strategica. Il caso di scuola resta quello di Vado Ligure, con l’arrivo nel 2016 di Cosco e del Qingdao Port Group in aiuto della Apm Terminals (danese) che con la crisi finanziaria del 2008 non riuscì a coprire i costi di costruzione del nuovo terminal container. Si creò allora una joint venture, la “Apm Terminals Vado Ligure S.p.A., di cui Apm mantiene una quota maggioritaria (50,1 per cento) mentre Cosco e Qingdao Port Group detengono il 40 per cento e il 9,9 per cento, rispettivamente”, si legge in un report dello Iai. Le scalate da parte della Cina per ottenere il controllo di una intera infrastruttura – come avvenuto in Grecia – non si sono verificate in Italia e probabilmente, con la nuova consapevolezza di oggi, non avverranno mai. Nemmeno nel porto di Trieste, molto corteggiato nel periodo del governo gialloverde da Pechino e poi acquisito dalla Hhla tedesca con una quota del 50,01 per cento (la stessa dove vorrebbe entrare Cosco).  

 

Oggi, con i perimetri di sicurezza assicurati dal meccanismo dello screening degli investimenti esteri della Commissione europea, e con lo strumento del Golden Power rimodulato dal governo Draghi, è molto difficile immaginare l’acquisizione completa da parte di Pechino di una infrastruttura italiana. Ma è altrettanto difficile escludere che ci fosse, in precedenza, un piano strategico cinese per ottenere il controllo di una rete di trasporti internazionale, e magari usarla come arma politica, proprio come potrebbe fare con certi settori sensibili tecnologici. C’è poi un altro fattore da considerare: i rapporti con Pechino e la dipendenza europea dalla Cina sono diventati un problema soprattutto dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, e c’è stata un’ulteriore conferma dopo il Congresso del Partito comunista cinese, che ha affidato a Xi Jinping un terzo mandato da segretario generale. La vicinanza dei due leader, Xi e Putin, sempre più forti e autoritari, spaventa le democrazie liberali. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.